Il paradosso (ma non troppo) dei Bund
Alzi la mano chi scommetterebbe su un cavallo già claudicante in partenza. O su un tiratore miope e senza occhiali. Probabilmente nessuno. Eppure sono tanti gli investitori che acquistano titoli di Stato decennali tedeschi con un rendimento dello 0,35%, sapendo che - con l’inflazione all’1,8% in Europa - perderanno soldi in termini reali. Se si guarda lo spread tra Italia e Germania, questa è la vera anomalia: non tanto i BTp decennali che pagano un tasso d’interesse del 2,36% (tutto sommato ragionevole in un mondo reflattivo globale), ma i Bund tedeschi che offrono per i prossimi 10 anni rendimenti ben più bassi dell’inflazione attuale e di quella attesa per il futuro. Questa anomalia rivela la paura dei grandi investitori: che l’intera impalcatura dell’euro ceda. Dietro il tecnicismo del mercato, c’è insomma un messaggio forte e chiaro. Un assaggio della partita che si sta giocando. La classe politica non deve sottovalutarlo.
Il rendimento troppo basso dei Bund ha infatti un’unica spiegazione logica: gli investitori comprano titoli di Stato tedeschi (cioè scommettono sul cavallo perdente) non solo perché sono sicuri, ma anche perché li vedono denominati in ipotetici futuri marchi tedeschi. Per dirla semplice: si riempiono le tasche di titoli che offrono un rendimento reale ampiamente negativo, perché credono che resterebbero espressi in valuta forte se la situazione si mettesse davvero male. Dietro l’incredibile appeal dei Bund inizia insomma ad esserci anche una logica valutaria. Questo è il messaggio che arriva dal mercato. E non è l’unico: nascosti dai riflettori ci sono altri campanelli d’allarme.
Altri dati mostrano infatti due fenomeni simili: la fuoriuscita di denaro da un lato dall’Eurozona e dall’altro, restando all’interno dell’Europa, dai Paesi più deboli a favore di quelli più forti. Il movimento è chiaro se si prendono i dati di Epfr Global, che misurano i flussi di denaro in entrata e in uscita dai dai fondi d’investimento. Ebbene: dalla primavera del 2016 (cioè con l’avvicinarsi di Brexit) i fondi dedicati alle azioni o alle obbligazioni europee registrano pesanti deflussi di capitali. Un’emorragia tale di denaro non si era mai vista dal 2012, da quando Mario Draghi tranquillizzò tutti con le sue rassicuranti parole a sostegno dell’euro (il celebre «whatever it takes»). E l’uscita di capitali finanziari dall’Europa continua tutt’ora: la settimana chiusa il primo febbraio, certifica Epfr, ha registrato ulteriori deflussi di capitali dall’Eurozona compensati dagli afflussi verso i Paesi europei esterni come Svizzera e Svezia. Anche questo è un segnale, come quello del Bund, che parla da solo: gli investitori, nel Vecchio continente, cercano valute forti. Soppesano, in quest’annata elettorale, la credibilità dell’euro. E anche se Draghi ha ribadito in questi giorni la promessa della Bce, i loro occhi sono puntati altrove: sulle elezioni in Olanda, Francia, Germania e (chissà) Italia. La partita questa volta è politica.
Se l’intera Europa perde capitali, all’interno del Continente ci sono vincitori e vinti. E l’Italia, con tutte le sue fragilità, finisce sempre per essere il vaso di coccio: perché è il Paese più grosso, con il maggior debito pubblico, con un settore bancario fragile e con mille contraddizioni. Oltre allo spread che si allarga, la stessa Epfr certifica così che la settimana scorsa i fondi che investono sui mercati italiani hanno registrato l’ennesimo forte deflusso di denaro. E se si guardano altri indicatori, per esempio i dati dell’Abi sui depositi bancari, il messaggio che arriva è lo stesso. Se i depositi della clientela residente nel 2016 (ultimo dato disponibile è quello relativo a dicembre) sono cresciuti in generale del 4,2% su base annua, quelli dei residenti all’estero nelle banche italiane sono invece scesi del 4,4%. Questo significa che gli italiani continuano a mettere i propri soldi nelle banche della Penisola, ma contemporaneamente tutti gli altri li stanno riducendo. È vero che questo dato è “sporcato” dal settore interbancario (che è incluso nel calcolo), ma il messaggio è inequivocabile: retromarcia dall’Italia.
Infine c’è un ulteriore indicatore che, seppur “impuro”, lancia un messaggio simile: Target 2. Si tratta del “registratore di cassa” europeo, che traccia i flussi di capitali in entrata e in uscita da ogni Paese. Ebbene: Target 2 mostra che l’Italia ha accumulato un passivo record nei confronti dell’Europa (365 miliardi), mentre la Germania ha un attivo record (oltre 750 miliardi). Questo dato è influenzato dalle modalità tecniche con cui si svolge il quantitative easing, cioè la politica con cui la Bce (o meglio le banche centrali nazionali) compra titoli di Stato di tutti i Paesi. Dunque non deve allarmare. Ma, dietro le quinte, Target 2 dimostra che gli italiani e gli stranieri quando vendono titoli di Stato a Bankitalia poi non reinvestono i proventi in Italia. Insomma: i soldi stampati dalla Bce, tendenzialmente non restano nella Penisola. Ma escono.
Quattro indizi (spread, deflussi dai fondi, depositi bancari e Target 2) non fanno forse una prova, ma - pur con tutte le pecche di indicatori influenzati da tante variabili - danno un assaggio della partita che si sta giocando. Il solo timore, anche remoto, che l’euro possa sfaldarsi provoca l’uscita di capitali dall’Europa e dai suoi Paesi più deboli: quelli che, nel day after, non avrebbero una valuta forte. Quelli che non emettono granitici Bund. Il mercato, con tutta la sua dose di speculazione e di paure, lancia un messaggio chiaro: sta alla classe politica dare una risposta.