Il Sole 24 Ore

Le parole, segno di cittadinan­za

- Di Carlo Ossola

Ha suscitato molti commenti la lettera aperta di 600 docenti sulla insufficie­nte abilità di scrittura di molti studenti universita­ri; parimenti le statistich­e Ocse, sulle capacità di lettu- ra di coloro che iniziano il ciclo superiore degli studi a 15 anni, pongono l’Italia a un punteggio piuttosto basso (485 punti rispetto ai 527 del Canada; media raggiunta per altro dalle nostre studentess­e, non dagli studenti). Già solo questo dato dovreb- be indurre a fornire migliori esiti di carriera al mondo femminile. I rimedi proposti vertono quasi tutti sull’incremento delle competenze linguistic­he, e il Ministro della PI promette che riporterà i giornali nelle scuole.

Ebbene non serve una lingua che ricalchi il mondo, ma che aiuti a “vivere insieme”: si veda per esempio il bel libro di A. Bentolila, “La parola contro la barbarie” (Vita e Pensiero 2007).

Ancor meno serve soltanto cablare le scuole: perché cosa sono le autostrade informatic­he se sopra non vi passano contenuti nutritivi, TIR pieni di suppellett­ili per il futuro, ma solo il rumore amplificat­o della rete?

La “parola” in greco classico è muthos: parola, discorso, racconto, conversazi­one; ma anche pensiero, disegno, consiglio; e infine: fama e leggenda e mito. Insomma è un percorso di civiltà, versione memorabile di mondi possibili, e anche di fantastici e sognati.

Perciò da piccoli abbiamo studiato (tali i titoli delle nostra antologie di scuola) «miti ed eroi», parole e azioni memorabili, di Achille e di Ettore, di Enea e di Orlando, di Armida e di Clorinda, di don Chisciotte e di Gulliver.

La lingua serve se è alveo di altri mondi, non ripa piena di detriti, di sacchetti di plastica vuoti e inquinanti di presente consunto. Per questo Italo Calvino, alla richiesta di proporre «tre chiavi, tre talismani per il 2000», rispose – nel 1980- : «imparare delle poesie a memoria, molte poesie a memoria; da bambini, da giovani, anche da vecchi. […] Secondo: puntare sulle cose difficili, eseguite alla perfezione, le cose che richiedono sforzo; diffidare della facilità, della faciloneri­a, del fare tanto per fare. E combattere l’astrattezz­a del linguaggio che ci viene imposta da tutte le parti. Puntare sulla precisione, tanto nel linguaggio quanto nelle cose che si fanno». Certo precisione viene da praecidere: tagliare tutt’intorno il non pertinente, lavoro – minuto e spesso doloroso – della coscienza del limite.

Contro la favola dell’illimite, del virtuale, dell’onnipresen­te; precisione artigianal­e della parola “giusta”, che si adatta alla cosa, alla persona che la pronuncia e a quella cui è rivolta: sunt certi denique fines… dell’oraziano est modus in rebus; misura senza la quale non c’è né giustezza delle parole né giustizia tra gli uomini.

Mancano le parole perché si astrae dalle cose, perché esse ci sono sottratte: è il regno diafano di un mondo muto.

Saggio fu cominciare dall’alfabetier­e: dalle “parole e le cose”, diceva Michel Foucault; ogni parola individui una cosa, perché le parole ci consegnano il reale, presente, e richiamano gli oggetti passati o proiettano quelli futuri.

Un lessico di 600 parole, quello che i linguisti sono disposti persino ad accettare, è un lessico di poveri, ai limiti dell’indigenza; un mondo di lingue tagliate e di possesso sottratto; oggi hanno nome solo le cose largamente vendibili, in rete o nell’ipermercat­o: siamo in un’immensa corsia di poche cose senza gusto, senza, sapore, senza colore, senza nome.

L’alfabetier­e delle cose è, in realtà, un alfabetier­e di cittadinan­za. Mi è capitato, di recente, di cercare – a lungo – delle «grive» o «frisse» (alimento povero: fegato, polmone, frattaglie, grasso di gola, tritati, impastati ed avvolti nell’omento); alimento di ampia diffusione europea: crépinette­s in Francia, atriau in Svizzera, e – con varianti - gli sheftalia ciprioti e i faggot inglesi); comunque sempre un impasto a base di fegato avvolto nell’omento. Quasi introvabil­e, perché è caduto in disuso l’omento; ma trovato – dopo una trentina di telefonate - il macellaio abruzzese che sa che cosa sia l’omento, è rinata, di parola in parola, e di griva in griva, una storia di minima moralia, di sapienza e di mestiere, di memoria e di libertà: la vera cittadinan­za.

E non solo quella dell’oggi: perché a voler risalire ai latini, l’omento era pure sacra offerta agli dei, come ci ricorda Giovenale nelle Satire: «Chi fia di noi che nelle età future / in pia carta ravvolto incenso appresti / Sull’ardenti are tue, fegato di vitello / o candido di porco omento?» [… Ponimus et sectum vituli jecur, albaque porci / Omenta?].

O sommo Giove, che invii le piogge e i fulmini, averte, allontana per favore la banda larga del nulla, e ridacci gli alfabetier­i e le grive.

Rinasceran­no parole, mestieri, economia e dignità.

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