Le parole, segno di cittadinanza
Ha suscitato molti commenti la lettera aperta di 600 docenti sulla insufficiente abilità di scrittura di molti studenti universitari; parimenti le statistiche Ocse, sulle capacità di lettu- ra di coloro che iniziano il ciclo superiore degli studi a 15 anni, pongono l’Italia a un punteggio piuttosto basso (485 punti rispetto ai 527 del Canada; media raggiunta per altro dalle nostre studentesse, non dagli studenti). Già solo questo dato dovreb- be indurre a fornire migliori esiti di carriera al mondo femminile. I rimedi proposti vertono quasi tutti sull’incremento delle competenze linguistiche, e il Ministro della PI promette che riporterà i giornali nelle scuole.
Ebbene non serve una lingua che ricalchi il mondo, ma che aiuti a “vivere insieme”: si veda per esempio il bel libro di A. Bentolila, “La parola contro la barbarie” (Vita e Pensiero 2007).
Ancor meno serve soltanto cablare le scuole: perché cosa sono le autostrade informatiche se sopra non vi passano contenuti nutritivi, TIR pieni di suppellettili per il futuro, ma solo il rumore amplificato della rete?
La “parola” in greco classico è muthos: parola, discorso, racconto, conversazione; ma anche pensiero, disegno, consiglio; e infine: fama e leggenda e mito. Insomma è un percorso di civiltà, versione memorabile di mondi possibili, e anche di fantastici e sognati.
Perciò da piccoli abbiamo studiato (tali i titoli delle nostra antologie di scuola) «miti ed eroi», parole e azioni memorabili, di Achille e di Ettore, di Enea e di Orlando, di Armida e di Clorinda, di don Chisciotte e di Gulliver.
La lingua serve se è alveo di altri mondi, non ripa piena di detriti, di sacchetti di plastica vuoti e inquinanti di presente consunto. Per questo Italo Calvino, alla richiesta di proporre «tre chiavi, tre talismani per il 2000», rispose – nel 1980- : «imparare delle poesie a memoria, molte poesie a memoria; da bambini, da giovani, anche da vecchi. […] Secondo: puntare sulle cose difficili, eseguite alla perfezione, le cose che richiedono sforzo; diffidare della facilità, della faciloneria, del fare tanto per fare. E combattere l’astrattezza del linguaggio che ci viene imposta da tutte le parti. Puntare sulla precisione, tanto nel linguaggio quanto nelle cose che si fanno». Certo precisione viene da praecidere: tagliare tutt’intorno il non pertinente, lavoro – minuto e spesso doloroso – della coscienza del limite.
Contro la favola dell’illimite, del virtuale, dell’onnipresente; precisione artigianale della parola “giusta”, che si adatta alla cosa, alla persona che la pronuncia e a quella cui è rivolta: sunt certi denique fines… dell’oraziano est modus in rebus; misura senza la quale non c’è né giustezza delle parole né giustizia tra gli uomini.
Mancano le parole perché si astrae dalle cose, perché esse ci sono sottratte: è il regno diafano di un mondo muto.
Saggio fu cominciare dall’alfabetiere: dalle “parole e le cose”, diceva Michel Foucault; ogni parola individui una cosa, perché le parole ci consegnano il reale, presente, e richiamano gli oggetti passati o proiettano quelli futuri.
Un lessico di 600 parole, quello che i linguisti sono disposti persino ad accettare, è un lessico di poveri, ai limiti dell’indigenza; un mondo di lingue tagliate e di possesso sottratto; oggi hanno nome solo le cose largamente vendibili, in rete o nell’ipermercato: siamo in un’immensa corsia di poche cose senza gusto, senza, sapore, senza colore, senza nome.
L’alfabetiere delle cose è, in realtà, un alfabetiere di cittadinanza. Mi è capitato, di recente, di cercare – a lungo – delle «grive» o «frisse» (alimento povero: fegato, polmone, frattaglie, grasso di gola, tritati, impastati ed avvolti nell’omento); alimento di ampia diffusione europea: crépinettes in Francia, atriau in Svizzera, e – con varianti - gli sheftalia ciprioti e i faggot inglesi); comunque sempre un impasto a base di fegato avvolto nell’omento. Quasi introvabile, perché è caduto in disuso l’omento; ma trovato – dopo una trentina di telefonate - il macellaio abruzzese che sa che cosa sia l’omento, è rinata, di parola in parola, e di griva in griva, una storia di minima moralia, di sapienza e di mestiere, di memoria e di libertà: la vera cittadinanza.
E non solo quella dell’oggi: perché a voler risalire ai latini, l’omento era pure sacra offerta agli dei, come ci ricorda Giovenale nelle Satire: «Chi fia di noi che nelle età future / in pia carta ravvolto incenso appresti / Sull’ardenti are tue, fegato di vitello / o candido di porco omento?» [… Ponimus et sectum vituli jecur, albaque porci / Omenta?].
O sommo Giove, che invii le piogge e i fulmini, averte, allontana per favore la banda larga del nulla, e ridacci gli alfabetieri e le grive.
Rinasceranno parole, mestieri, economia e dignità.