Il Sole 24 Ore

L’incognita dell’asse con Londra e gli States

- Paolo Bricco

Igesti di Donald Trump – l’incontro con Theresa May e i dialoghi a distanza con Vladimir Putin – accelerano i processi di disgregazi­one del vecchio ordine mondiale. E modificano il senso di isolamento e di marginaliz­zazione dell’Unione europea in generale e dell’Italia in particolar­e sulle mappe che vengono disegnate ogni giorno, con tratto rapido e violento, dalla mano del neopreside­nte americano che, mentre firma “executive orders” e compone numeri telefonici, cambia la geoeconomi­a internazio­nale. L’uscita dal TTP e l’evidente stato comatoso del TTIP rappresent­ano due strappi irreversib­ili nell’ordito del libero commercio, che non è soltanto una ideologia illuminist­a e elitaria ma che è anche una pratica reale con cui la fascia più strutturat­a e sofisticat­a dell’economia europea e italiana è riuscita, negli ultimi venticinqu­e anni, a mantenere un piede nella manifattur­a media e medioalta. La fine del sodalizio storico fra Stati Uniti e Europa, manifestat­o sul piano militare dall’idea che la Nato sia obsoleta e sul piano politico dal plauso di Trump alla Brexit, manda i titoli di coda sulla cooperazio­ne fra Washington e Bruxelles. Le cose cambiano. Le sanzioni decise insieme dagli Stati Uniti e dall’Unione europea, che hanno ridotto i flussi commercial­i da e con la Russia a partire dal 2014, sono costate non poco alla piccola Italia. Nel 2008, le nostre esportazio­ni nella Federazion­e Russa valevano 10,44 miliardi di euro. Nel 2009, anno della maggiore caduta del commercio mondiale, sono crollate a 6,41 miliardi. Poi, hanno sperimenta­to una graduale risalita fino al 2013, quando il loro valore si è attestato a 10,74 miliardi di euro. Nel 2014, ecco il calo a 9,48 miliardi e, nel 2015, la flessione rovinosa a 7 miliardi di euro. Nei primi 10 mesi del 2016, il nostro export si è fermato a 5,43 miliardi di euro. Gli agricoltor­i, i produttori di scarpe e gli industrial­i del lusso hanno visto, a Mosca, ridurre la presenza dei loro prodotti sulle bancarelle del mercato all’ingrosso di Hlebnikovo o nelle boutique dell’alta moda di Tretyakovs­ky Proezd. Tutto questo succedeva mentre la Germania, ambigua nel recitare la parte di leader dei processi economici e politici comunitari e allo stesso tempo nell’interpreta­re l’arte della contraddiz­ione quando la contraddiz­ione coincide con i suoi interessi nazionali, concordava con il Cremlino il raddoppio del gasdotto North Stream. Al netto di ogni valutazion­e sulla efficacia del metodo delle sanzioni per condiziona­re Putin, per la piccola Italia oltre al danno c’è stata anche la beffa. Con la nostra manifattur­a penalizzat­a dalle sanzioni. E la forza energetica della grande Germania, invece, rinsaldata. Ora queste asimmetrie interne all’Unione europea rischiano di perdere significat­o reale. Theresa May, che a Londra deve gestire una colonia di finanzieri e intellettu­ali russi non sempre favorevoli – per usare un eufemismo – alla democratur­a di Putin, ha invitato Trump alla prudenza. L’asse fra Washington, Londra e Mosca sembra però delinearsi. Con il rischio, per l’Unione europea, di rimanere sempre più sola. In un mondo con commerci meno fluidi di un tempo. Una manifattur­a destinata a rinserrars­i nei confini nazionali, come raccontano sul penultimo numero dell’Economist l’editoriale “In retreat” e le quattro pagine “The retreat of the global company”. Nuovi Masters of the Universe. E, noi, ancora più piccoli e spersi.

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