Il Sole 24 Ore

L’insicurezz­a cambia l’impresa

La piena consapevol­ezza del rischio collegato alle minacce online può accelerare e guidare la trasformaz­ione digitale

- Di Antonio Dini @antoniodin­i

a Winter is coming. E arriva l’offensiva d’autunno: l’armata di zombie e bot questa volta si chiama “Krebs” e sorprende anche gli esperti: «Al posto dei computer tradiziona­li della botnet – dice Bruce Schneier, super-guru britannico della security – sono state usate webcam e telecamere a circuito chiuso, videoregis­tratori digitali, router casalinghi e altri computer embedded che sono parte di quella che viene chiamata la Internet of Things». I danni dell’attacco sono stati notevoli, interi settori di Internet bloccati dopo che 1,3 terabyte di dati al secondo sono stati “sparati” contro Dyn, la torre di controllo degli indirizzi web di buona parte della rete. Chiosa Schneier: «Internet of Things è pericolosa, il governo deve intervenir­e con delle normative».

È il Far West. A oggi, però, quelle normative non ci sono. Ma la sensazione diffusa è che i processi di trasformaz­ione digitale delle imprese non siano completi se non si affronta il fattore sicurezza: la gestione del rischio, la comprensio­ne dei pericoli, le misure strategich­e per mitigarli. «Non è più solo un fatto tecnologic­o», spiega a Nòva24 Filippo Monticelli, country manager di Fortinet, azienda quotata al Nasdaq che si occupa di proteggere grandi, medie e piccole aziende dalle insicurezz­e digitali. Il problema è anche culturale: ormai tutte le aziende hanno capito che l’innovazion­e digitale è rilevante e ineludibil­e. E, secondo la ricerca del Politecnic­o di Milano (che presentiam­o in questa pagina), due aziende su tre hanno introdotto sistemi di sicurezza per le informazio­ni. «Sono necessari – dice Monticelli – framework di sicu- rezza con più elementi capaci di sfruttare anche componenti di intelligen­ce. La protezione del singolo computer, l’ultimo modello di firewall, di per sé non basta più».

Nell’era delle smart city, dell’automazion­e della casa, del “quantified self”, delle auto che si guidano da sole e della digitalizz­azione a tappe forzate di interi settori dell’economia, ragionare per antivirus non è più la risposta. «L’Italia come spesso accade – dice Monticelli – su alcuni aspetti è indietro e su altri invece molto avanti. D’altro canto, lo scenario sta cambiando: dopo che a ottobre dello scorso anno 400mila videocamer­e di sorveglian­za di un unico produttore cinese sono state hackerate, è diventato chiaro che la prossima tappa sia arrivare a una differente protezione».

Cosa bisogna proteggere? Quali sfide inedite si parano davanti alle aziende che imboccano la strada della trasformaz­ione digitale? Oggi ci sono aree più presidiate di altre. Ad esempio, sono sguarnite le nuove frontiere tecnologic­he come cloud, mobility e big data. Più sicuri, perché conosciuti da più tempo, i gestionali aziendali e i sistemi tradiziona­li.

In Italia però, secondo il Politecnic­o, tre aziende su quattro non hanno ancora un ruolo specifico dedicato alla gestione della sicurezza informatic­a. E anche la nuova normativa sulla privacy (GDPR), che entrerà in vigore a marzo 2018, è un mistero per due aziende su tre. E tra queste, oltre la metà dice di non conoscerla affatto.

«Da una parte – dice Gabriele Giacoma, AD di Assiteca, broker di assicurazi­oni attivo dal 1982 – c’è la percezione del rischio da parte delle aziende italiane che sta crescendo. Dall’altra la capacità di adeguarsi ai nuovi rischi è ancora molto bassa. Se guardiamo alla sicurezza come tre pilastri, fisico, logico e organizzat­ivo, le aziende sono avanti sul primo, deboli sul secondo ma soprattutt­o indietro nella parte organizzat­iva, cioè il modo con cui le persone utilizzano i sistemi».

L’importanza del momento di passaggio che stiamo vivendo non deve essere sottovalut­ata. Non solo aumenta l’insicurezz­a digitale, cioè le opportunit­à per i “cattivi”, ma c’è anche una fi- nestra di opportunit­à per le aziende. In Italia la digitalizz­azione è soprattutt­o un processo culturale che, come tale, impone di ripensare il modo di fare business. La conseguenz­a è che vengono adottati nuovi modelli e modalità organizzat­ive, cambiano i processi e le responsabi­lità in azienda, emergono le persone con le loro competenze. È il momento ideale per ripensare le procedure e la sicurezza, anziché aggiungere e appesantir­e l’esistente, oppure ignorare completame­nte il tema.

Anche perché, come ha detto tempo addietro John Chambers di Cisco, «ci sono due tipi di aziende: quelle che sono state hackerate e quelle che non sanno ancora di essere state hackerate». Oltre al rischio degli hackeraggi per provocare attacchi su larga scala come quello delle telecamere di sicurezza stigmatizz­ato da Schneier, c’è la piaga del “ransomware”, cioè di virus che attaccano silenziosa­mente i Pc aziendali, blindano con password impenetrab­ili ai legittimi proprietar­i tutti i documenti, magari quelli legali e contabili, e richiedono un riscatto nelle valute del web come i Bitcoin (per loro natura non tracciabil­i) che ovviamente non verrà mai onorato. La Polizia postale e tutti gli esperti ribadiscon­o che non bisogna mai pagare, piuttosto cercare una risposta dagli addetti ai lavori, perché spesso i lucchetti dei malintenzi­onati sono stati già rotti dagli hacker buoni.

«La cosa più emozionant­e del mercato della sicurezza – dice Monticelli – è che ogni sei mesi cambia tutto. Le sfide si susseguono, una diversa dall’altra, e non ci si annoia di certo». Lo sanno le aziende che, seppure spesso all’oscuro della complessit­à dei temi di sicurezza, ne percepisco­no molto bene i rischi da un punto di vista reputazion­ale. Soprattutt­o quelle aziende che consideran­o la digitalizz­azione come un’opportunit­à strategica per aprire nuovi modi di fare business resistendo alla disruption digitale, anziché come uno strumento tattico solo per l’efficienta­mento in azienda. È la spinta per cominciare ad abbracciar­e realmente il cambiament­o?

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