La sconcertante Brexit strategy della May
«Londra era una porta aperta sull’Europa, ora è solo una porta». La battuta attribuita a un osservatore cinese indica l’azzardo che Theresa May ha deciso di correre per inseguire i falchi brexiters sul terreno di uno strappo totale con l’Unione europea. Se questa percezione diverrà realtà e se la Gran Bretagna scoprirà davvero di non essere più tanto Great come la retorica e la demagogia vanno raccontando, gli eventi di questi ultimi sette mesi si confermeranno prologo al più clamoroso harakiri di una nazione che si ricordi. Lo sospettiamo in tanti, da sempre, sul filo di convergenti analisi economiche o di evidenti intuizioni politiche.
L’addio a tutto ciò che è Unione europea costringe il Regno di Elisabetta a ripensare da zero a un modello di sviluppo che da quattro decenni è ancorato al progetto comune. Ha abbracciato il Continente – per esclusivo opportunismo economico e senza alcun sussulto di ideale – mentre stava per essere presa per mano dal Fondo monetario (il bail out è del 1976 tre anni dopo l’ingresso nell’allora Cee). Sull’adesione ha costruito la rivoluzione che per molto tempo – a torto talvolta ma più spesso a ragione – le ha invidiato mezzo mondo. Il thatcherismo – esemplificazione di deregulation, privatizzazioni, rinnovato atlantismo – fiorì in quell’Europa comune destinata a espandersi fino a raggiungere la straordinaria soglia dei Ventotto, uniti da un mercato unico di marca britannica capace di dare un forte radicamento mercantile a ogni divagazione politica. Tanti Paesi li aveva voluti, per prima, proprio Londra che nell’ampliamento sperava di trovare non solo una risposta alla crisi postsovietica, ma il balsamo migliore contro l’approfondimento delle istituzioni comuni, in una logica di sabotaggio-soft che le si è rivoltata contro. Sono state le ondate di lavoratori dell’Est a cacciarla fuori dall’Unione, svelando il prezzo da pagare per i benefici del mercato interno. La libera circolazione dei servizi ha dato mano libera alla City, sviluppando un’industria che con l’indotto è il 12% del Pil, ma ha portato con sé la libera circolazione dei lavoratori. Agli idraulici polacchi si sono aggiunti i falegnami bulgari e i muratori rumeni, camerieri italiani, spagnoli e anche francesi attratti da un Paese che appariva al bivio della storia, capace di stare al riparo dalla crisi dell’euro e dai vincoli della moneta unica, sfruttando il meglio di due mondi. Per questo il Regno Unito è riuscito a superare, con tanta, inattesa agilità, la crisi del 2008 di cui il modello di finanza anglo- sassone fu causa prima.
L’ultimo mattone di questo infinito crack economico prima e politico poi, è rimasto in volo per qualche anno, ma d’improvviso è ricaduto sul tavolo di un premier, David Cameron, che con la leggerezza di uno scommettitore e la follia di un irresponsabile ha giocato se stesso e il futuro del Paese, ordinando il referendum di giugno, risoltosi in un “no” all’Europa, che è in realtà “no” a molto altro.
La storia s’imbizzarrisce, talvolta. Non è la prima e non sarà l’ultima. Una nuova puntata l’abbiamo vista a Lancaster house quando Theresa May ha deciso di raddoppiare la posta del suo predecessore, decidendo, motu proprio, che il “no” popolare doveva essere inteso anche come “no” al mercato interno, a quanto, cioè, la Londra di Margaret Thatcher, aveva tanto contribuito a creare. La signora primo ministro s’è poi esibita in quell’accennato esercizio muscolare, già stigmatizzato, paventando la trasformazione della Gran Bretagna in un paradiso fiscale\inferno sociale per arginare la fuga che tanti vanno già organizzando. Concetto riaffermato dai ministri brexiters – squadra a cui Theresa May va iscritta per conversione, indotta dall’esigenza di controllo del partito – ma non più apparso a Davos nell’intervento con cui la premier ha chiuso una lunga settimana di esternazioni.
L’aspetto più sconcertante dell’attuale incedere britannico è la contraddizione fra la politica ultra-liberista da autentico free trader immaginata come risposta alla Brexit e le intonazioni ad alto tasso sociale a cui Theresa May si è lasciata andare dal giorno del suo insediamento. Il tentativo politico è evidente: far convergere i populismi della destra e della sinistra in un’offerta programmatica non movimentista, ma con il marchio del mainstream party per eccellenza, quello Tory. Partito che si vorrebbe d’improvviso ecumenico, espressione di un conservatorismo paternalista e di stampo democristiano. Non si vede come possa diventarlo se Londra approfondirà davvero, fuori dall’Ue, il modello economico liberista fino a ora esibito.
Il “no” al referendum di giugno – lo ricor- diamo – è stato, prevalentemente, un “no” alla disuguaglianza estrema del Regno Unito, di cui Londra è rappresentazione plastica. Una città-stato che produce quasi un terzo del Pil nazionale ed è all’avanguardia su tutto, anni-luce avanti al resto di un Paese che in larga misura arranca. Londra è diventata quello che è grazie alle politiche economiche inaugurate da Thatcher, ribadite da John Major, temperate appena da Tony Blair e Gordon Brown, riproposte da Cameron. Quelle stesse che Theresa May magari critica ma, implicitamente, ipotizza di rilanciare affidandosi alla retorica cara al ministro del Commercio Liam Fiox e anche a quello degli Esteri Boris Johnson.
La Brexit potrebbe aver l’effetto indotto dall’approccio ultra-liberista, generato dal contrasto negoziale con l’Ue, di acuire il gap sociale, il divario nord-sud (qui è il settentrione in sofferenza), l’anomalia di Londra. Contraddicendo il significato profondo della domanda uscita dal referendum. Domanda equivoca, domanda mista, come sempre accade in questi casi, ma che ha avuto nel mirino, in primo luogo, le disuguaglianze. Quelle stesse che paradossalmente, Theresa May dice di voler sconfiggere «riformando – parole testuali – il capitalismo».
A chi chiede uguaglianza ed equità non si offre un paradiso fiscale, seppure sui generis con nuove dosi di deregulation e acrobatiche agevolazioni fiscali in una lettura speculare all’epica di Robin Hood: dare ai ricchi perché s’arricchiscano di più. Una semplificazione ? Ovviamente, ma non del tutto irrealista.
Resta pertanto il dubbio che nella muscolare performance abbozzata nei giorni scorsi dalla signora premier e dai suoi ministri ci siano dosi massicce di posizionamento negoziale per annunciare al mondo di non essere nell’angolo. Se davvero non lo sei, di solito, non hai urgenza di dirlo. Un indizio in più a conferma della caotica transizione che Londra è consapevole di essersi imposta. Cosciente, come temiamo sia, che la glaciale logica dell’osservatore cinese sia impeccabile: «Porta d’Europa» dischiusa sul niente. O poco più.
UNA TRANSIZIONE CAOTICA Le ricette ventilate dalla premier britannica sembrano tutto fuorché la risposta più logica alle tensioni sociali che hanno spinto il Paese fuori dall’Unione