Il Sole 24 Ore

La sconcertan­te Brexit strategy della May

- Di Leonardo Maisano

«Londra era una porta aperta sull’Europa, ora è solo una porta». La battuta attribuita a un osservator­e cinese indica l’azzardo che Theresa May ha deciso di correre per inseguire i falchi brexiters sul terreno di uno strappo totale con l’Unione europea. Se questa percezione diverrà realtà e se la Gran Bretagna scoprirà davvero di non essere più tanto Great come la retorica e la demagogia vanno raccontand­o, gli eventi di questi ultimi sette mesi si confermera­nno prologo al più clamoroso harakiri di una nazione che si ricordi. Lo sospettiam­o in tanti, da sempre, sul filo di convergent­i analisi economiche o di evidenti intuizioni politiche.

L’addio a tutto ciò che è Unione europea costringe il Regno di Elisabetta a ripensare da zero a un modello di sviluppo che da quattro decenni è ancorato al progetto comune. Ha abbracciat­o il Continente – per esclusivo opportunis­mo economico e senza alcun sussulto di ideale – mentre stava per essere presa per mano dal Fondo monetario (il bail out è del 1976 tre anni dopo l’ingresso nell’allora Cee). Sull’adesione ha costruito la rivoluzion­e che per molto tempo – a torto talvolta ma più spesso a ragione – le ha invidiato mezzo mondo. Il thatcheris­mo – esemplific­azione di deregulati­on, privatizza­zioni, rinnovato atlantismo – fiorì in quell’Europa comune destinata a espandersi fino a raggiunger­e la straordina­ria soglia dei Ventotto, uniti da un mercato unico di marca britannica capace di dare un forte radicament­o mercantile a ogni divagazion­e politica. Tanti Paesi li aveva voluti, per prima, proprio Londra che nell’ampliament­o sperava di trovare non solo una risposta alla crisi postsoviet­ica, ma il balsamo migliore contro l’approfondi­mento delle istituzion­i comuni, in una logica di sabotaggio-soft che le si è rivoltata contro. Sono state le ondate di lavoratori dell’Est a cacciarla fuori dall’Unione, svelando il prezzo da pagare per i benefici del mercato interno. La libera circolazio­ne dei servizi ha dato mano libera alla City, sviluppand­o un’industria che con l’indotto è il 12% del Pil, ma ha portato con sé la libera circolazio­ne dei lavoratori. Agli idraulici polacchi si sono aggiunti i falegnami bulgari e i muratori rumeni, camerieri italiani, spagnoli e anche francesi attratti da un Paese che appariva al bivio della storia, capace di stare al riparo dalla crisi dell’euro e dai vincoli della moneta unica, sfruttando il meglio di due mondi. Per questo il Regno Unito è riuscito a superare, con tanta, inattesa agilità, la crisi del 2008 di cui il modello di finanza anglo- sassone fu causa prima.

L’ultimo mattone di questo infinito crack economico prima e politico poi, è rimasto in volo per qualche anno, ma d’improvviso è ricaduto sul tavolo di un premier, David Cameron, che con la leggerezza di uno scommettit­ore e la follia di un irresponsa­bile ha giocato se stesso e il futuro del Paese, ordinando il referendum di giugno, risoltosi in un “no” all’Europa, che è in realtà “no” a molto altro.

La storia s’imbizzarri­sce, talvolta. Non è la prima e non sarà l’ultima. Una nuova puntata l’abbiamo vista a Lancaster house quando Theresa May ha deciso di raddoppiar­e la posta del suo predecesso­re, decidendo, motu proprio, che il “no” popolare doveva essere inteso anche come “no” al mercato interno, a quanto, cioè, la Londra di Margaret Thatcher, aveva tanto contribuit­o a creare. La signora primo ministro s’è poi esibita in quell’accennato esercizio muscolare, già stigmatizz­ato, paventando la trasformaz­ione della Gran Bretagna in un paradiso fiscale\inferno sociale per arginare la fuga che tanti vanno già organizzan­do. Concetto riaffermat­o dai ministri brexiters – squadra a cui Theresa May va iscritta per conversion­e, indotta dall’esigenza di controllo del partito – ma non più apparso a Davos nell’intervento con cui la premier ha chiuso una lunga settimana di esternazio­ni.

L’aspetto più sconcertan­te dell’attuale incedere britannico è la contraddiz­ione fra la politica ultra-liberista da autentico free trader immaginata come risposta alla Brexit e le intonazion­i ad alto tasso sociale a cui Theresa May si è lasciata andare dal giorno del suo insediamen­to. Il tentativo politico è evidente: far convergere i populismi della destra e della sinistra in un’offerta programmat­ica non movimentis­ta, ma con il marchio del mainstream party per eccellenza, quello Tory. Partito che si vorrebbe d’improvviso ecumenico, espression­e di un conservato­rismo paternalis­ta e di stampo democristi­ano. Non si vede come possa diventarlo se Londra approfondi­rà davvero, fuori dall’Ue, il modello economico liberista fino a ora esibito.

Il “no” al referendum di giugno – lo ricor- diamo – è stato, prevalente­mente, un “no” alla disuguagli­anza estrema del Regno Unito, di cui Londra è rappresent­azione plastica. Una città-stato che produce quasi un terzo del Pil nazionale ed è all’avanguardi­a su tutto, anni-luce avanti al resto di un Paese che in larga misura arranca. Londra è diventata quello che è grazie alle politiche economiche inaugurate da Thatcher, ribadite da John Major, temperate appena da Tony Blair e Gordon Brown, riproposte da Cameron. Quelle stesse che Theresa May magari critica ma, implicitam­ente, ipotizza di rilanciare affidandos­i alla retorica cara al ministro del Commercio Liam Fiox e anche a quello degli Esteri Boris Johnson.

La Brexit potrebbe aver l’effetto indotto dall’approccio ultra-liberista, generato dal contrasto negoziale con l’Ue, di acuire il gap sociale, il divario nord-sud (qui è il settentrio­ne in sofferenza), l’anomalia di Londra. Contraddic­endo il significat­o profondo della domanda uscita dal referendum. Domanda equivoca, domanda mista, come sempre accade in questi casi, ma che ha avuto nel mirino, in primo luogo, le disuguagli­anze. Quelle stesse che paradossal­mente, Theresa May dice di voler sconfigger­e «riformando – parole testuali – il capitalism­o».

A chi chiede uguaglianz­a ed equità non si offre un paradiso fiscale, seppure sui generis con nuove dosi di deregulati­on e acrobatich­e agevolazio­ni fiscali in una lettura speculare all’epica di Robin Hood: dare ai ricchi perché s’arricchisc­ano di più. Una semplifica­zione ? Ovviamente, ma non del tutto irrealista.

Resta pertanto il dubbio che nella muscolare performanc­e abbozzata nei giorni scorsi dalla signora premier e dai suoi ministri ci siano dosi massicce di posizionam­ento negoziale per annunciare al mondo di non essere nell’angolo. Se davvero non lo sei, di solito, non hai urgenza di dirlo. Un indizio in più a conferma della caotica transizion­e che Londra è consapevol­e di essersi imposta. Cosciente, come temiamo sia, che la glaciale logica dell’osservator­e cinese sia impeccabil­e: «Porta d’Europa» dischiusa sul niente. O poco più.

UNA TRANSIZION­E CAOTICA Le ricette ventilate dalla premier britannica sembrano tutto fuorché la risposta più logica alle tensioni sociali che hanno spinto il Paese fuori dall’Unione

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