Il Sole 24 Ore

A Bp ora «serve» il barile a 60 dollari

- Di Sissi Bellomo

Tra le grandi compagnie petrolifer­e era apparsa come la più ottimista, dando via libera a progetti ambiziosi e concedendo­si una lunga serie di acquisizio­ni già a fine 2016. Ma Bp potrebbe aver fatto il passo più lungo della gamba. La major britannica, dopo aver fatto ogni sacrificio per riuscire a far quadrare i conti col barile a 50-55 dollari, adesso è costretta ad alzare di nuovo l’asticella: per andare a bre- akeven ha bisogno che il greggio scambi a 60 dollari, un prezzo che non si è più visto, neppure brevemente, da luglio 2015.

Nei giorni scorsi anche altri big del petrolio, da ExxonMobil a Royal Dutch Shell, hanno comunicato risultati inferiori alle attese. E Bp non ha fatto eccezione: nel quarto trimestre 2016 ha registrato utili netti di appena 72 milioni di dollari (replacemen­t cost profit, che tiene conto delle variazioni di magazzino), meno delle previsioni, anche se un anno prima aveva perso 2,2 miliardi. Impiegando la misura preferita dalle compagnie, quella “adjusted” (che depura il dato da altre poste, compresa per Bp quella non irrilevant­e dei pagamenti per il disastro della Deepwater Horizon) l’utile trimestral­e sale a 400 milioni e per l’intero esercizio 2016 la perdita di 999 milioni si tramuta in un profitto di 2,6 miliardi. Ma gli analisti avevano comunque gli occhi puntati su altro.

pBp è l’unica tra le major petrolifer­e ad aver fatto un passo indietro nell’opera di risanament­o dei conti. Il debito a fine 2016 è già risalito a 35,5 miliardi di dollari dai 27,2 miliardi di un anno prima. E a meno che il barile non si apprezzi ulteriorme­nte, anche in futuro la compagnia rischia di non avere flussi di cassa sufficient­i a pagare i dividendi (lasciati immutati, a 10 cents per azione) e finanziare allo stesso tempo la sua attività. Quest’ultima è infatti diventata più costosa, proprio a causa delle recenti acquisizio­ni – tra cui una quota del giacimento di gas Zohr, rilevata da Eni – e dell’approvazio­ne di ambiziosi investimen­ti, come i pozzi offshore di Mad Dog 2 nel Golfo del Messico (si veda il Sole 24 Ore del 20 dicembre 2016).

Le difficoltà di Bp, che ieri in Borsa ha perso oltre il 3%, illustrano bene il delicato equilibrio che le compagnie sono costrette a cercare per uscire dalla crisi. Le attività di raffinazio­ne e il trading, che fino a poco tempo fa consentiva­no di arginavano le perdite, ora iniziano a mostrare la corda. E il prezzo del petrolio non è ancora decollato abbastanza per rilanciare davvero l’upstream.

I guai non sono finiti neppure per Statoil, che proprio ieri ha comunicato la svalutazio­ne di asset per 2,3 miliardi di dollari legata a un ridimensio­namento delle previsioni di lungo termine sui prezzi del petrolio: ora si aspetta che il barile valga 75 invece che 83 dollari nel 2020 e 80 anziché 100 nel 2030. Non è tanto la concorrenz­a dello shale oil a spaventarl­a. La compagnia norvegese afferma di temere che la domanda di greggio possa imboccare la strada di un declino irreversib­ile addirittur­a prima del 2030.

Rispetto ad altre major Bp si porta anche appresso il fardello dei danni per il disastro del 2010, quando una sua piattaform­a esplose nel Golfo del Messico: il conto ha raggiunto 62,6 miliardi di dollari. Il ceo Bob Dudley ha comunque voluto mettere l’accento sulle prospettiv­e future e sugli 800mila barili al giorno di nuova produzione attesi entro il 2020 grazie ai recenti investimen­ti. «Abbiamo conseguito risultati solidi in condizioni difficili - ha detto il manager – Tutto quello che abbiamo fatto nell’ultimo anno ci ha resi una compagnia più resiliente e competitiv­atitiv».

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Sotto pressione. Il logo Bp

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