Germania e Irlanda, ecco chi più soffre per «America first»
Quando Peter Navarro, capo del nuovo Consiglio nazionale per il commercio degli Stati Uniti, ha accusato la Germania di sfruttare un euro «gravemente sottovalutato» per esportare a prezzi di favore nel suo Paese, è apparso finalmente chiaro come anche l’Europa sia finita nel mirino delle strategie protezioniste che rappresentano (per ora) la caratteristica principale delle politiche di Donald Trump. Quanto possa costare al Vecchio Continente quello slogan «America First» è difficile da stabilire, perché al momen- to non è chiaro se potranno essere imposti dazi a singoli Paesi o nell’insieme, oppure se ci si limiterà (come in realtà già sta avvenendo) a tenere sotto controllo il valore del cambio euro/dollaro.
Si può però già capire quali saranno i Paesi più esposti: a partire naturalmente dalla Germania, che quando si parla di export di beni detiene ovviamente uno degli avanzi commerciali più elevati nei confronti degli Stati Uniti e pari al 2,3% del Pil. Alla fine del 2015, secondo i dati più recenti pubblicati dal Fmi, soltanto l’Irlanda riusciva a superarla con il 6,6% del Pil anche se è ovvio che Berlino ha un peso specifico ben superiore a quello di Dublino.
Ancora più significativi degli indicatori sulle semplici esportazioni sarebbero per la verità le cifre che considerano non il solo prodotto finito ma il valore ag- giunto all’interno di ciascun Paese. È chiaro infatti, per fare un esempio classico, che un’auto assemblata in Germania sia costituita da diverse componenti prodotte magari in Stati diversi. Questi ultimi dati, rilevati dall’Ocse, sono purtroppo aggiornati soltanto a fine 2011, riflettono comunque tendenze ancora in atto e possono essere quindi ritenuti significativi.
Anche in questo caso è l’Irlanda la più esposta all’export Usa con l’equivalente del 10,6% del Pil, seguita nell’Eurozona da Belgio e Germania rispettivamente con il 3,2% e il 2,9%, mentre il Por- togallo chiude la classifica con appena lo 0,7 per cento. Se queste cifre fossero tradotte in soldoni, spiega Stephen Brown della società di analisi indipendente Capital Economics, «un ipotetico calo del 10% delle esportazioni verso gli Stati Uniti si tradurrebbe in una contrazione del Pil dell’1% per l’Irlanda, dello 0,3% per la Germania e meno dello 0,1% per il Portogallo».
L’Italia, in questa graduatoria, non appare tra le più colpite, al pari di Francia e Spagna, con una quota di valore aggiunto derivante da beni e servizi esportati verso gli Usa attorno al 2% che ci potrebbe «costare» 2 decimi di Pil nello scenario ipotizzato in precedenza. Lo scenario fin qui proposto appare forse pessimista, ma occorre considerare che gli effetti finora paventati potrebbero risultare addirittura blandi in confronto alle conseguenze potenziali che potrebbero scaturire nel lungo termine da una politica protezionista. «L’Unione europea - sostiene ancora Brown - potrebbe adottare contromisure che contribuirebbero da una parte a ridurre le loro importazioni, ma dall’altra anche ad aumentare l’inflazione e a ridurre quindi il reddito disponibile». In una vera e propria guerra commerciale tutti, in fondo, hanno da perdere.
LE CONSEGUENZE Per Italia, Francia e Spagna l’impatto sarebbe inferiore, ma con una guerra commerciale «a tutto campo» nel lungo termine tutti hanno da perdere