Hu go Boss, il rilancio è partito
Il 90% dei ricavi viene dall’abbigliamento Nel 2017 turn around per tornare a crescere
a Giorgio Armani lo rivendica spesso e con orgoglio: il suo è uno dei pochi marchi che sfilano a Milano moda donna a essere da sempre concentrato e specializzato in abbigliamento. Gli accessori sono importanti, certo: integrano le collezioni e l’assortimento dei negozi e fanno parte del mondo e dello stile Armani. Al contrario però di tante aziende e brand del made in Italy che a scarpe e borse devono più oltre metà dei rispettivi fatturati, Armani resta il re dell’abbigliamento e per questo è il punto di riferimento, il benchmark, direbbe un direttore marketing, di Hugo Boss, il più grande gruppo tedesco della moda, come spiega Mark Langer, ceo da poco più di sei mesi. Uomo dei numeri (dal 2010 al maggio 2016 è stato cfo di Hugo Boss) ma anche di prodotto, Langer ha messo a punto un piano di sviluppo «organico» che, assicura, riporterà l’azienda ai ritmi di crescita del passato a partire dal 2018.
I risultati definitivi saranno presentati il 9 marzo, quelli preliminari, annunciati il 16 gennaio, indicano ricavi 2016 in calo del 4% a 2,693 miliardi. E la redditività?
Una diminuzione del fatturato incide fatalmente sugli utili. Rispetto ai 594 milioni del 2015, l’ebitda dell’esercizio appena chiuso dovrebbe scendere di una percentuale compresa tra il 17 e il 23%. È una previ- sione che il 16 gennaio abbiamo confermato ed è linea con quanto ci aspettavamo da parecchi mesi. Il 2016 è stato un anno difficile, per Hugo Boss e l’intero settore della moda e del lusso. Ma nel quarto trimestre sono arrivati segnali di ripresa.
Cosa prevede il piano di sviluppo?
Da una parte dobbiamo concentrarci sui due brand: Boss e Hugo. Il primo deve essere sempre più chiaramente percepito come “upper premium”, il secondo ha già oggi un ottimo rapporto qualità- prezzo e punta a un pubblico più giovane e metropolitano. I listini Hugo saranno inferiori del 30% circa rispetto a quelli di Boss. Gli americani chiamano questo posizionamento “progressive”, ma le etichette non sono così importanti, conta la percezione del consumatore.
Negli ultimi anni avete ampliato la gamma degli accessori: a che percentuale
del fatturato volete arrivare?
Scarpe e borse, da uomo e da donna, vanno molto bene e speriamo continuino a crescere, ma non a scapito dell’abbigliamento, che oggi assorbe il 90% delle vendite e sarà sempre il nostro core business. Ci sentiamo un po’ l’Armani di Germania, detto col massimo rispetto e ammirazione per uno stilista-imprenditore che ha ancora tanto da insegnare a tutti.
Boss ha sfilato a New York il 31 gennaio. Succederà anche per le prossime stagioni e per la donna?
La fashion week di New York dedicata all’uomo è molto nuova e ci sembrava l’occasione adatta per il ritorno di Ingo Wilts come chief brand officer di Boss. Per il futuro stiamo vagliando diverse possibilità, però una cosa è certa: le sfilate non si toccano. Io le chiamo il “momento magico” di un’intera stagione di lavoro. Sono importanti per l'immagine del brand, per creare spirito di squadra e sicurezza dei propri mezzi all’interno dell’azienda e, naturalmente, servono a vendere.
Ci sono tanti tipi di strategie commerciale ed è senz’altro vero che internet ha rivoluzionato i tempi della moda e imposto un’accelerazione agli stilisti, ai cicli produttivi e alla distribuzione. Ma ribadisco: la sfilata è un momento magico, per brand come Boss, Hugo e tanti altri. Non fa per noi, né per il nostro modello di business, rendere subito disponibile ciò che si è visto in passerella.
Che ruolo avrà allora la tecnologia?
Potenzieremo l’e-commerce, internalizzando le piattaforme extra europee. Anche per Hugo Boss vale il mantra della multicanalità: continueremo quindi a investire nei negozi fisici, con relocation e ristrutturazioni.
I format invecchiano in fretta e l’unica certezza che ho, in quest’era di volatilità globale, è che non bisogna avere paure del cambiamento.
La moda ama la fiction, incondizionatamente. Del resto, vestirsi non è solo un atto di copertura delle nudità o di messa al riparo dalle intemperie, ma un esercizio di rappresentazione dell’individuo nel teatrino del vivere sociale. Che piaccia o meno, è messa in scena. Oggi - la perversione non va trascurata - la più convincente di tutte le fiction è anche la più paradossale: la verità nuda e cruda, o meglio la sua parvenza, servita con una brutalità che ne aumenta il presunto realismo. È stato il machiavellico Demna Gvasalia di Vetements e Balenciaga a spostare il pendolo in questa direzione, ed è proprio lui che adesso estremizza, osannato, l’assunto. L’ultimo show di Vetements, ospitato a Parigi nel calendario della haute couture - altra perversione da non trascurare - e accolto con l’entusiasmo cieco che si riserva ai dogmi, è, alla lettera, un tranche de vie da film nouvelle vague: un susseguirsi di personaggi, o meglio stereotipi, presi dalla strada, o dalle exactitudes di Ari Versluis and Ellie Uyttenbroek, e mandati in passerella suppergiù vestiti come nella vita vera. Dalla sciura milanese al gabber al metallaro, non manca nessuno, e a ciascuno è dato un tocco ruvido ma paradossalmente poetico di decostruzione. Manca solo l’ironia. Qui ci si prende seriamente sul serio, anche a costo di dimenticare che Franco Moschino aveva percorso identiche strade, con humor sottile ma veramente corrosivo, e che a forza di crear contesti per raccontar storie, la moda rischia il costume, proprio mentre cerca la verità.