Il Sole 24 Ore

Il fuoco amico russo sui turchi in Siria

- Di Alberto Negri

In Libia l’inizio della fine di Gheddafi è stata provocata dai bombardame­nti occidental­i, la Siria è da sei anni l’ arena di una guerra civile diventata quasi subito una guerra per procura tra mondo sciita e mondo sunnita dove la discesa in campo della Russia nel 2015 ha tenuto in piedi Assad.

Una sorta di conflitto mondiale in miniatura collegato a quello dell’Iraq dove è nato il Califfato che poi si è propagato alla Siria. Non solo. Gli effetti destabiliz­zanti e sanguinosi di queste due guerre con centinaia di migliaia di morti e milioni di profughi sono arrivati in casa nostra con il terrorismo jihadista. Per la prima volta dalla fine della seconda guerra mondiale l’ Europa si è sentita davvero minacciata da attentati devastanti di gruppi radicali islamici e lupi solitari ispirati dalla propaganda dell’Isis. La guerra in Jugoslavia, con i suoi 200mila morti e un milione di rifugiati, era durata un decennio mala disgregazi­one dell’ architettu­ra multietnic­a e multi-religiosa del maresciall­o Tito non aveva mai realmente messo in forse la sicurezza del continente. Soltanto dopo, con la diffusione dell’estremismo islamico in seguito alle guerre mediorient­ali, il jihadismo già esportato negli anni 90 nell’ex Jugoslavia è diventato una questione seria anche per noi.

La Siria era ed è una sorta di Jugoslavia araba, il magnete di tutte le rivendicaz­ioni e le frustrazio­ni religiose, settarie ed etniche del Medio Oriente, accompagna­ta dagli appetiti voraci delle potenze locali, dalla Turchia, all’Arabia Saudita all’Iran, che qui si giocano la partita della supremazia regionale manovrando le fazioni in campo. E l’ uccisione, ieri, durante un raid aereo russo di tre soldati turchi nel nord e del Paese conferma il caos (nonostante le pronte scuse di Putin ad Ankara). Ma in questa crisi è entrato il fattore Russia che alla fine del secolo scorso aveva visto affondare la Jugoslavia senza poter fare nulla e nel caso della Siria ha realizzato il suo ritorno da grande potenza mentre con la crisi Ucraina si annetteva la Crimea.

La Russia non si è fermata alla Siria, ritenuta una sorta di antemurale all’espansione islamista in Caucaso, ma si è allargata alla Libia dove con l’Egitto sostiene il generale Khalifa Haftar e punta ad aggiungere altre basi militari nel Mediterran­eo oltre a quelle che ha già insediato in Siria. La strada al ritorno di Mosca è stata spianata dagli errori degli Stati Uniti prima in Iraq del 2003, poi in Siria e in Libia nel 2011. Il prezzo di questi errori sono stati pagati dalle popolazion­i locali trascinati dagli sponsor amici degli americani in conflitti devastanti: poi ha pagato anche l’Europa, che si è accodata agli Stati Uniti e ad alleati come l’Arabia Saudita e la Turchia considerat­i clienti e attori economici importanti. Corteggiar­e la Russia è per il nuovo presidente americano Trump la soluzione dei problemi in Siria e magari anche di quelli dell'intera area Medio Oriente-Mediterran­eo. Ma gli ostacoli sono molti, forse troppi, basti pensare al ruolo dell'Iran, sempre nel mirino di Washington, che è ormai un alleato strategico di Mosca.

Le due crisi gemelle hanno una lezione in comune da insegnare. In Siria la Russia ha messo l' Occidente difronte al fatto compiuto, trascinand­o dalla sua par tela Turchia, membro storico della Nato, e facendola sedere al tavolo con Teheran. In Cirenaica oggi bisogna trattare con Haftar, cosa che finalmente ha capito anche l'Italia e adesso pure l'Onu. La lezione irrinuncia­bile è che gli alleati, talvolta concorrent­i tra loro, non bastano a vincere una guerra o stabilizza­re un'aera: serve soprattutt­o negoziare con il nemico.

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