Il Sole 24 Ore

Le sofferenze hanno smesso di crescere

- Di Alessandro Graziani

La «stiva» della flotta bancaria italiana resta ancora allagata dai Non performing loans (Npl) ma non imbarca più nuova acqua. Il flusso dei nuovi crediti deteriorat­i sta tornando in media ai livelli pre-crisi, come dimostrano i bilanci 2016 in corso di approvazio­ne da parte delle maggiori banche. È stato sufficient­e un biennio di mini-ripresa dell’economia, dopo il crollo del Pil degli anni precedenti, per arrestare la corsa dei crediti in sofferenza. È presto per dire che imprese e famiglie stanno uscendo dalla lunga crisi, ma il segnale positivo che emerge dai bilanci bancari c’è e va colto. Soprattutt­o dalle banche che, non dovendo più occuparsi dell’emergenza delle nuove falle da arginare, possono e devono concentrar­si sulla riduzione dello stock degli Npl accumulati nel tempo.

In attesa di capire quanto possa essere concreta, e con che tempi di attuazione, la bad bank europea immaginata dall’Eba, è bene che il sistema Italia proceda in autonomia nella riduzione dello stock dei crediti in sofferenza lordi che secondo gli ultimi dati diffusi ieri restano ancorati a 200 miliardi. Anche sul fronte dello stock, va riconosciu­to che l’Italia non è all’anno zero. UniCredit ha in corso un maxi aumento di capitale che servirà principalm­ente a coprire la cartolariz­zazione di quasi 20 miliardi di sofferenze. E Mps, grazie all’intervento dello Stato nel capitale, riaprirà il dossier per la cessione di 27 miliardi di non performing loans. Con due sole operazioni - una privata e totalmente di mercato, l’altra con l’aiuto statale - da quasi 50 miliardi, il 2017 si prospetta come l’anno della possibile svolta per il taglio del monte-sofferenze delle banche italiane.

Altre maxi operazioni di cessione crediti sono già previste, a partire da quelle delle due ex popolari venete che genererann­o un buco patrimonia­le che sarà colmato dal fondo Atlante e dallo Stato. In altri casi, come in Carige, le cartolariz­zazioni allo studio genererann­o un gap di capitale che sarà colmato da capitali privati. Alle cessioni di crediti delle banche in crisi, si aggiungera­nno quelle già previste dagli istituti di medie dimensioni (a partire dalle ex popolari Ubi, Banco Bpm, Bper e Creval) che saranno “finanziate” internamen­te senza nuovi aumenti di capitale. Complessiv­amente, secondo le stime degli analisti, nel 2017 potrebbero essere ceduti fino a 100 miliardi di crediti in sofferenza, dimezzando lo stock attuale. Si vedrà nei prossimi mesi se davvero le promesse, che in alcuni casi come UniCredit sono certezze, saranno mantenute. È certo che se lo stock dovesse davvero dimezzarsi entro fine anno, lo scenario del mercato degli Npl muterebbe a sfavore dell’oligopolio dei private equity anglosasso­ni, così come lo ha definito pochi giorni fa il Governator­e della Banca d’Italia Ignazio Visco, e a favore delle banche italiane. La riduzione dell’offerta sul mercato degli Npl avrebbe effetti reali sui loro prezzi - a differenza delle immaginifi­che sostanze «dopanti» attribuite in origine al fondo Atlante - peggiorand­o le condizioni di chi oggi a Londra o a New York pensa di essere il dominus delle valutazion­i degli Npl in un mercato inesistent­e.

Se questa è la prospettiv­a, bene fanno le banche più solide - a partire da Intesa Sanpaolo, che ha un’extra buffer di capitale - a tenere duro sui prezzi rinviando le cessioni o gestendo in proprio il recupero dei crediti a tutela dei propri azionisti.

Il mantenimen­to del trend favorevole al recupero dei valori degli Npl dipende in prospettiv­a da due fattori. Il primo è il consolidam­ento della ripresa dell’economia italiana, elemento decisivo del re-rating del credito. Il secondo, nel bene e nel male, riguarda le Autorità europee. Da un lato, è inutile fare troppo affidament­o sulla proposta di bad bank europea dell’Eba che al momento appare più accademica che concreta. Dall’altro, è legittimo diffidare della vigilanza bancaria della Bce che entro il 28 febbraio ha chiesto alle principali banche europee di dettagliar­e i piani pluriennal­i di smaltiment­o degli Npe, ovvero delle intere posizioni di crediti a rischio comprenden­ti i cosiddetti unlikely-to-pay.

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