Le sofferenze hanno smesso di crescere
La «stiva» della flotta bancaria italiana resta ancora allagata dai Non performing loans (Npl) ma non imbarca più nuova acqua. Il flusso dei nuovi crediti deteriorati sta tornando in media ai livelli pre-crisi, come dimostrano i bilanci 2016 in corso di approvazione da parte delle maggiori banche. È stato sufficiente un biennio di mini-ripresa dell’economia, dopo il crollo del Pil degli anni precedenti, per arrestare la corsa dei crediti in sofferenza. È presto per dire che imprese e famiglie stanno uscendo dalla lunga crisi, ma il segnale positivo che emerge dai bilanci bancari c’è e va colto. Soprattutto dalle banche che, non dovendo più occuparsi dell’emergenza delle nuove falle da arginare, possono e devono concentrarsi sulla riduzione dello stock degli Npl accumulati nel tempo.
In attesa di capire quanto possa essere concreta, e con che tempi di attuazione, la bad bank europea immaginata dall’Eba, è bene che il sistema Italia proceda in autonomia nella riduzione dello stock dei crediti in sofferenza lordi che secondo gli ultimi dati diffusi ieri restano ancorati a 200 miliardi. Anche sul fronte dello stock, va riconosciuto che l’Italia non è all’anno zero. UniCredit ha in corso un maxi aumento di capitale che servirà principalmente a coprire la cartolarizzazione di quasi 20 miliardi di sofferenze. E Mps, grazie all’intervento dello Stato nel capitale, riaprirà il dossier per la cessione di 27 miliardi di non performing loans. Con due sole operazioni - una privata e totalmente di mercato, l’altra con l’aiuto statale - da quasi 50 miliardi, il 2017 si prospetta come l’anno della possibile svolta per il taglio del monte-sofferenze delle banche italiane.
Altre maxi operazioni di cessione crediti sono già previste, a partire da quelle delle due ex popolari venete che genereranno un buco patrimoniale che sarà colmato dal fondo Atlante e dallo Stato. In altri casi, come in Carige, le cartolarizzazioni allo studio genereranno un gap di capitale che sarà colmato da capitali privati. Alle cessioni di crediti delle banche in crisi, si aggiungeranno quelle già previste dagli istituti di medie dimensioni (a partire dalle ex popolari Ubi, Banco Bpm, Bper e Creval) che saranno “finanziate” internamente senza nuovi aumenti di capitale. Complessivamente, secondo le stime degli analisti, nel 2017 potrebbero essere ceduti fino a 100 miliardi di crediti in sofferenza, dimezzando lo stock attuale. Si vedrà nei prossimi mesi se davvero le promesse, che in alcuni casi come UniCredit sono certezze, saranno mantenute. È certo che se lo stock dovesse davvero dimezzarsi entro fine anno, lo scenario del mercato degli Npl muterebbe a sfavore dell’oligopolio dei private equity anglosassoni, così come lo ha definito pochi giorni fa il Governatore della Banca d’Italia Ignazio Visco, e a favore delle banche italiane. La riduzione dell’offerta sul mercato degli Npl avrebbe effetti reali sui loro prezzi - a differenza delle immaginifiche sostanze «dopanti» attribuite in origine al fondo Atlante - peggiorando le condizioni di chi oggi a Londra o a New York pensa di essere il dominus delle valutazioni degli Npl in un mercato inesistente.
Se questa è la prospettiva, bene fanno le banche più solide - a partire da Intesa Sanpaolo, che ha un’extra buffer di capitale - a tenere duro sui prezzi rinviando le cessioni o gestendo in proprio il recupero dei crediti a tutela dei propri azionisti.
Il mantenimento del trend favorevole al recupero dei valori degli Npl dipende in prospettiva da due fattori. Il primo è il consolidamento della ripresa dell’economia italiana, elemento decisivo del re-rating del credito. Il secondo, nel bene e nel male, riguarda le Autorità europee. Da un lato, è inutile fare troppo affidamento sulla proposta di bad bank europea dell’Eba che al momento appare più accademica che concreta. Dall’altro, è legittimo diffidare della vigilanza bancaria della Bce che entro il 28 febbraio ha chiesto alle principali banche europee di dettagliare i piani pluriennali di smaltimento degli Npe, ovvero delle intere posizioni di crediti a rischio comprendenti i cosiddetti unlikely-to-pay.