La rinascita dei troppi poeti
Chi parla dell’immensa trionfale produzione poetica nostrana trascura il lavoro critico di chi prova a separare il grano dal loglio
Non so mai bene in che mondo vivo, e quando lo so me ne dimentico volentirei. Che cosa può fare l’uomo, disse Auden, se non difendere se stesso dalla conoscenza? Lo fa con i libri, o guardando i prati, o praticando uno sport, o ascoltando musica. La cultura non è solo sapere, è ancora più spesso un rimedio contro il sapere, un tenere a bada la certezza che là fuori, magari a pochi passi, c’è l’inumano, c’è l’enorme natura che ci ignora, c’è il caos che ci assedia.
Sento dire che l’Italia è in Europa uno dei Paesi più corrotti, è il più inquinato, il più incapace di far lavorare i giovani, il più politicamente instabile e ora il più colpito da catastrofi e sciagure ambientali. Sento anche dire, però, che una cosa in Italia splende, fiorisce e trionfa: è la poesia. Pare che ci siano tre milioni di poeti che lavorano duro a difenderci o a difendersi dalla conoscenza,
dall’autocoscienza, dalla cultura e dal sapere che arte è la loro. Non può che essere così, perchè anche se non sono tre milioni ma solo trecentomila o trentamila o mille, è difficile credere che siano tutti poeti e non ci siano tra loro parecchi illusi più o meno candidi, convinti che nessuno si accorgerà che quello che scrivono non è né questo né quello né altro.
Ma non vogliamo credere alle voci malevole o trionfaliste. Se non sono neppure trentamila o tremila, i nostri poeti saranno almeno cinquecento. Devono esserlo, perché ogni volta che qualcuno prova a dire chi sono, ci si accorge subito che ce ne sono invece altri, moltissimi altri. Ho messo mano negli ultimi tre mesi a un’antologia di poeti pubblicati fra il 2015 e il 2016. Ho letto poco meno di cento libri. Ora mi basta aprire i giornali per constatare che ce ne sono altri che non ricordo di aver mai sentito nominare. Potrei coscienziosamente essere sopraffato da un amaro senso di colpa verso i dimenticati. Ma mi consolo pensando che in questa materia poetica informe e sconfinata nessuno è riuscito né riuscirà a mettere ordine, se non tornando, con biasimevole tradizionalismo selettivo, a scegliere i suoi venti o trenta o quaranta (già troppi!) “veri” poeti.
Negli ultimi giorni sono usciti sui giornali alcuni articoli incontenibilmente entusiastici sull’attuale poesia italiana, che sembrano commissionati da un occulto Ministero dell’Ambiente Letterario. Ho letto per esempio sul supplemento La Lettura del Corriere che si annuncia e sarebbe in corso un «rinascimento della poesia». Franco Manzoni, autore dell’articolo, avverte subito: « Torna a risuonare vincente il ritmo del-
la poesia. È un dato di fatto, considerando le scelte editoriali per l’anno appena iniziato » .
« Ritmo della poesia » ? Raramente i nostri attuali autori di testi poetici hanno orecchio per il ritmo. La mancanza di qualunque ritmo è invece la cosa che si nota di più. E poi questo ritmo sarebbe “vincente”? Su che cosa? C’è una gara? Se ci fosse ( e c’è, almeno nelle classifiche dei successi esibite dai giornali) la poesia sarebbe più perdente che altro. Colpa dei lettori distratti, indifferenti o poco acquirenti? In parte, si. Ma anche responsabilità dei poeti. Poco leggibili non perché oscuri o difficili come Valéry o Benn o Montale, ma perché c’è poco da leggere, nel senso che dopo aver letto è come se non si fosse letto niente.
C’è chi accusa quei loschi figuri dei critici, i quali si permettono di giudicare con arroganza i manufatti altrui senza essere ( loro) in grado di creare o confezionare niente. Ma i critici, salvo poche eccezioni, non scrivono versi. Il guaio è che non sanno scrivere decentemente molti poeti ben noti.
È vero, nascono nuove collane. E Paolo Febbraro, assiduo commentatore di poeti e poeta l ui stesso, ha appena pubblicato un’antologia di una sessantina di autori e testi, con tanto di ottime note, nella nuova collana della Elliot diretta da Giorgio Manacorda. Osservo comunque che in questa collana, piuttosto severa, gli stranieri sono finora quattro (Stephan, Elordi, Gwyneth Lewis, Simic) e gli italiani sono due ( Zuccato, si veda l’articolo nella pagina a fianco, ndr, e Maccari). Vedremo quale direttore di collana nel prossimo futuro farà meglio con la sua scelta di libri.
Intanto anche l’Espresso non tace e dedica alla poesia ben sei pagine, con articoli firmati da Fabio Chiusi, Aldo Nove e Wlodek Goldkorn. Il titolo dell’insieme suona così: « POESIA. Sembra che non ci sia. Poi la incontri in un film, in un centro sociale, tra i libri più venduti. Perché i tre milioni di poeti d’Italia scrivono, leggono e si finanziano. Con successo » .
Interessante. Con qualche esagerazione sia quantitativa che qualitativa. Che abbiano successo, come si legge, Neruda, Leopardi (in un film) e William Carlos Williams (in un altro film) si sa e si capisce. Solo che l’ubiquità “social” della poesia è un fenomeno diverso: non va giù nemmeno a un filoavanguardista come Nove, secondo il quale i social sono “sfogatoi”, in cui di poesia non c’è quasi traccia.
Poco credibile è il fatto che tre milioni di poeti abbiano a che fare sia con la poesia che con il successo. Ma allora con che cosa hanno a che fare? Con se stessi, immagino. Invece di leggere, scrivono. Del resto come farebbero a leggere non solo se stessi ma tre milioni di colleghi? Questo rinascimento italiano della poesia, stando ai giornali, fa pensare a una marcia verso il nulla.