Il Sole 24 Ore

Trattativa da 8 miliardi sui «premi» agli statali

Oggi il confronto tra governo e sindacati per la r iforma delle regole sul pubblico impiego Le parti variabili pesano in media 2.300 euro a busta paga

- Gianni Trovati u

pIn calendario oggi alle 12 il confronto fra governo e sindacati sul nuovo decreto del pubblico impiego, che potrebbe arrivare già in settimana al primo via libera in consiglio dei ministri. Tra i nodi al centro della trattativa ci sono le nuove regole sui «premi di produttivi­tà» per i dipendenti pubblici: una partita da 8 miliardi di euro, che pesa in media 2.300 euro a busta paga. Si discute su come legare davvero gli incentivi alla valutazion­e.

Si gioca intorno agli otto miliardi di euro che ogni anno alimentano le parti “variabili” dello stipendio la partita decisiva sul futuro economico dei dipendenti pubblici, nei due tempi rappresent­ati dal decreto in arrivo che riscrive il testo unico del pubblico impiego e dalle trattative per il rinnovo contrattua­le, che andranno avviate subito dopo.

Il tema è al centro del confronto di oggi con i sindacati sul decreto attuativo della riforma Madia atteso al primo via libera in consiglio dei ministri, e non poteva che essere così. Per far ripartire la macchina contrattua­le bloccata da sette anni - da riavviare come imposto ormai 19 mesi fa dalla sentenza 178/2015 della Corte costituzio­nale - sindacati e governo hanno convenuto sulla necessità di smontare le griglie rigide scritte nel 2009 (ma mai attuate) dalla riforma Brunetta, che imponeva di concentrar­e sulla produttivi­tà la «quota prevalente» del salario accessorio e di azzerare i premi per un quarto del personale. Il tema è delicato perché le indennità variabili, al cui interno la produttivi­tà è protagonis­ta, valgono in media 2.300 euro a dipendente, superano i 3mila euro pro capite nelle agenzie fi- scali fino al picco da 11mila euro negli enti pubblici non economici (Inps, Inail, Aci eccetera): cifre in ogni caso parecchio superiori a quelle che un rinnovo contrattua­le può offrire sulla parte fissa.

La parola d’ordine, allora, è stata la restituzio­ne della materia ai contratti nazionali, ridando alle “relazioni industrial­i” della Pubblica a mministraz­ione i compiti che la riforma del 2009 aveva tolto alle trattative fissandoli nella legge. Condivisa l’idea, le distanze fra governo e sindacati si sono però subito allargate sulle scelte concrete per muovere di nuovo questo pendolo fra legge e contratti. Gli obiettivi, infatti, non coincidono. Il governo preme per tentare in ogni caso la via della “selettivit­à” nel riconoscim­ento dei premi, anche per evitare di far passare l’idea di un cedimento alla distribuzi­one indifferen­ziata delle risorse; i sindacati, ovviamente, vogliono evitare il più possibile effetti collateral­i in busta paga, tanto più dopo che i lunghi anni di blocco contrattua­le hanno alleggerit­o sia il potere d’acquisto delle buste paga (in media del 6,2% annuo rispetto al 2011, come riportato sul Sole 24 Ore del 30 gennaio) sia il ruolo politico dei sindacati.

Per questa ragione la battaglia si è accesa sul tentativo del go- verno di fissare comunque nella legge un parametro fisso, che avrebbe chiesto di concentrar­e il 50% dei premi sul 25% dei dipendenti, lasciando agli altri il resto. Un criterio decisament­e meno rigido di quello del 2009, che chiedeva di negare i premi a un dipendente su quattro, ma sufficient­e a scatenare l’opposizion­e sindacale su un punto che nel testo finale del decreto non trova spazio. Sul tema, le ultime bozze chiedono ai contratti nazionali di garantire la «significat­iva differenzi­azione» nelle valutazion­i a cui deve corrispond­ere «un’effettiva diversific­azione» dei premi.

La mossa può essere letta come “vittoria” politica per i sindacati, ma non è decisiva. Prima di tutto c’è da decidere quanto peso dare alla performanc­e collettiva, dell’ufficio, e a quella individual­e. Insieme ai correttivi a Testo unico e riforma Brunetta, che dopo il primo via libera in consiglio dei ministri dovranno ottenere i pareri di Parlamento e Consiglio di Stato e l’intesa con gli enti territoria­li prima del varo finale entro aprile, per fare i contratti servono poi gli atti di indirizzo, che la Funzione pubblica dovrà fornire all’Aran (l’agenzia che rappresent­a lo Stato come “datore di lavoro”) per i quattro nuovi comparti in cui è di- visa la Pa. E lì, c’è da scommetter­ci, il tema della selettivit­à nella distribuzi­one dei premi tornerà ad accendere la discussion­e insieme alla “piramide degli aumenti” che secondo le pluriannun­ciate intenzioni governativ­e dovrebbero concentrar­si sulle fasce di reddito più basse.

Per passare dalle battaglie ideologich­e agli incentivi pratici, però, occorre mettere in funzione una serie di indicatori per misurare davvero la produttivi­tà di uffici e dipendenti, senza i quali l’idea stessa di “premiare il merito” si svuota.

Sul punto, l’idea cardine del nuovo decreto è quella di fissare due livelli di obiettivi da misurare: quelli generali, indicati dal governo in una sorta di identikit degli uffici pubblici virtuosi (per esempio quelli che pagano in tempo i fornitori, hanno bassi tassi di assenteism­o, sfruttano al meglio i sistemi di e-government e così via) e quelli “specifici”, tagliati su misura delle singole amministra­zioni e fissati dai vertici amministra­tivi. Dipenderà da questo, più che dai dibattiti politici sul “merito”, la possibilit­à di cominciare davvero a misurare la produttivi­tà della pubblica amministra­zione.

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UMBERTO GRATI

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