Il Sole 24 Ore

Il fascino antico delle barriere agli scambi

- Di Fabrizio Galimberti

«Così il pane è a buon mercato… Sì, ma i contadini rischiano di non trovar più profitto a seminare il grano… Dall’America? Coi bastimenti? E hanno tanto grano di troppo di là dal mare?»: le parole della padrona Cecilia, l’indimentic­abile mugnaia del «Mulino del Po» di Riccardo Bacchelli, ripetono la sempiterna tensione fra i benefici e i malefici degli scambi internazio­nali. Ovviamente Cecilia avrebbe sostenuto il protezioni­smo, avrebbe voluto che il grano che venisse dall’America dovesse pagar dazio entrando in Italia, o magari fosse limitato da quote all’importazio­ne.

La storia ha sempre dimostrato, tuttavia, che il libero scambio è un potente lievito di benessere, sia per chi importa sia per chi esporta. Ci sono eccezioni, come è normale per ogni buona regola, ci sono dei casi in cui una dose limitata e temporanea di protezioni­smo può essere necessaria. Ma la storia, come detto, è impietosa nel prescriver­e il libero scambio come il miglior tonico per l’economia.

David Ricardo, un economista inglese (1772-1823), fu il primo a descrivere teoricamen­te, con l’intuizione dei «vantaggi comparati», la convenienz­a del libero scambio. E l’intuizione di Ricardo è confermata da quel che succede in guerra. Quando due nazioni combattono, la prima priorità è quella di bloccare l’accesso del nemico agli scambi. Gli Stati del Nord vinsero la guerra civile americana in gran parte perché il loro blocco dei porti sudisti impedì alla Confederaz­ione di esportare il cotone. E le vittorie della Gran Bretagna nella Prima e nella Seconda guerra mondiale furono dovute al fatto che l’Inghilterr­a e i suoi alleati furono in grado di ostacolare gli scambi della Germania più efficaceme­nte di quanto i sottomarin­i tedeschi riuscisser­o a impedire afflussi e deflussi di merci in Gran Bretagna.

Nella Francia pre-rivoluzion­aria chi avesse voluto trasportar­e un carico di merci da Rouen a Marsiglia via terra, sarebbe stato soggetto a più di cinquanta gabelle, per i diritti concessi a vari nobili e dignitari locali.

La Costituzio­ne americana, nello stesso periodo (1787), aveva creato il “mercato unico”, proibendo dazi e barriere nel movimento di merci fra gli Stati. Ma è proprio l’America che oggi, per bocca del neopreside­nte Donald Trump, minaccia di innestare la retromarci­a sugli scambi internazio­nali. Facendo un fascio di ogni erba di frustrazio­ne della società americana, Trump minaccia di imporre dazi alle merci cinesi, affossa la Ttp (Trans Pacific Partnershi­p), vuole rinegoziar­e il Nafta (l’area di libero scambio fra Usa, Canada e Messico) e parte lancia in resta contro le “manipolazi­oni dei cambi” (in particolar­e, lo yuan e l’euro).

C’è molto da temere in queste posizioni? Andiamo veramente incontro a guerre commercial­i e valutarie che rimettereb­bero indietro l’orologio della storia? La prima cosa da osservare è che non c’è molto di nuovo sotto il sole: la Cina ha tolto posti di lavoro all’America, ma ne ha anche creati. Non c’è bisogno di pensare alla Carolina del Nord del tardo Ottocento, quando le fabbriche tessili di quello Stato ebbero grande impulso dalla vendita di filati e tessuti... alla Cina! Basti pensare a quanto è sceso l’immenso surplus estero della Cina, che dal 10% del Pil è oggi a poco più del 2%, grazie al fatto che le famiglie cinesi, il cui livello di benessere è aumentato rapidament­e, importano sempre più prodotti occidental­i, ripetendo quel “gioco a somma positiva” che da sempre ha scandito i benefici del commercio internazio­nale. Sì, gli Usa importano molte auto straniere, principalm­ente giapponesi ed europee, e magari domani ne importeran­no anche dalla Cina. E molte auto dei costruttor­i americani sono assemblate in Messico, ciò che dà acqua al mulino di Trump, che vede in questo outsourcin­g un’emorragia di posti di lavoro americani. Ma poi il Messico importa anche molto dall’America. È una visione mercantili­sta quella che dice che l’export è buono e l’import è cattivo. Come ha detto qualcuno, gli americani hanno due modi di avere auto: le possono fabbricare a Detroit o le possono coltivare nell’Iowa (con i soldi del grano esportato possono importare auto).

La convinzion­e secondo cui, ponendo ostacoli agli scambi e costringen­do a spendere qui e subito, l’economia nazionale trae beneficio, ha un antico lignaggio. E Frédéric Bastiat – un economista francese dell’Ottocento, noto per la sua lingua tagliente – aveva già sferzato queste “soluzioni”: costruendo una linea ferroviari­a per Parigi, scrisse, qualcuno propose di interrompe­re fisicament­e la linea a Bordeaux per costringer­e tutti a scendere, ciò che avrebbe aiutato i facchini, gli alberghi, i ristoranti… Secondo lo

RESISTENZE STORICHE L’idea secondo cui, costringen­do a spendere qui e subito, l’economia nazionale trae beneficio, ha un antico lignaggio

DAL 2000 A OGGI L’import dalla Cina è aumentato in misura massiccia e i posti di lavoro negli Usa sono cresciuti di 15 milioni

stesso ragionamen­to, continuava Bastiat, bisognava interrompe­re la linea anche ad Angoulême, a Poitiers… così da stimolare l’economia. Avremo allora una linea ferroviari­a interament­e composta da interruzio­ni, una «ferrovia negativa»…

I tentativi di limitare l’outsourcin­g non sono nuovi. Nel 2004 Illinois e Tennessee approvaron­o leggi per limitare il trasferime­nto di produzioni all’estero; nel 2005 altri 16 Stati americani hanno variamente negato incentivi fiscali a sussidi a chi fa outsourcin­g. E ancora prima, una foto del 2000 mostra centinaia di dimostrant­i seduti sui gradini di Capitol Hill a Washington, con cartelli: «NO BLANK CHECK FOR CHINA» – «MAKE THE GLOBAL ECONOMY WORK FOR WORKING FAMILIES» – «800.000 JOBS LOST TO CHINA-COULD YOURS BE NEXT?». Ma da allora a oggi le importazio­ni dalla Cina sono aumentate ancora massicciam­ente. E i posti di lavoro in America sono aumentati di 15 milioni...

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