La doppia spinta dell’Africa
Crescita vivace e flussi migratori sfidano un’Europa vecchia e stanca
Ci sono due capitoli dove il tradizionale rapporto Nord-Sud del mondo si capovolge “a favore” del secondo: l’incremento demografico e la dinamica economica dell’ultimo decennio. Se la prima questione può non sorprendere, meno scontato è lo sviluppo registrato da alcuni Paesi africani, uno sviluppo che peraltro non sta impedendo l’impennata dei flussi migratori. Fughe sempre più massicce, in parte spiegabili se si pensa che la crescita, pur forte, parte da livelli molto bassi, visto che i Pil totale e pro capite restano lontani anni luce da quelli del mondo occidentale e la maggioranza della popolazione vive sotto la soglia della povertà, schiacciata da emergenze umanitarie, politiche, militari, ambientali e dalla minaccia terroristica.
Sono alcuni spunti che emergono dal rapporto della Fondazione Leone Moressa sul “Ruolo dell’Europa negli scenari internazionali”, che con una serie di dati sui trend demografici ed economici delle diverse macro-aree offre un’utile piattaforma di osservazione sulla situazione attuale anche in relazione al fenomeno migratorio, punto chiave dell’attuale discussione politica e delle campagne elettorali in atto (o in vista). Un fenomeno che nel mondo coinvolge ormai oltre 65 milioni di individui (ma si arriva a 243 milioni considerando i migranti complessivi, non solo quelli “forzati”, dati 2015 delle Nazioni Unite), a fronte dei quali i 181mila sbarchi irregolari registrati in Italia nel 2016 possono considerarsi uno spostamento residuale – come ha ricordato l’Oim nel convegno organizzato dal Pime l’8 febbraio scorso per la “Giornata mondiale contro la tratta di persone” – e comunque un’emergenza operativa e umanitaria, certo non numerica. Si pensi che dei 34 milioni di emigrati africani, ben due terzi si spostano all’interno dello stesso continente, in Paesi con Pil e disponibilità molto inferiori a quelli del mondo occidentale.
Confrontando le statistiche, a partire dal capitolo demografico, si scopre che, se nel mondo la popolazione dal 2005 al 2015 è cresciuta di quasi il 13% (da 6,5 a 7,3 miliardi), il continente che ha dato il minor contributo (+1,2%) è proprio l’Europa, che non arriva al miliardo (740 milioni). Ben più significativo l’apporto dell’Africa: con quasi il 30% di abitanti in più nel decennio si avvicina a 1,2 miliardi e conta per il 16% sul totale mondiale (e per il 2050 le Nazioni Unite prevedono addirittura un raddoppio). Con quasi 4,4 miliardi di persone, però, resta l’Asia il continente più popoloso (60% del totale), con la Cina e l’India in testa per abitanti (1,3 miliardi circa ciascuna) e per trend demografico (+5,4% e +14,6%). L’altro miliardo circa di persone è distribuito per un terzo in Nordamerica, due terzi in Centro e Sudamerica e una quarantina di milioni in Oceania: tutte aree caratterizzate comunque da una significati- va crescita demografica (a differenza dell’Europa e del Giappone).
Quanto al capitolo economico, la dinamica è simile: le aree che oggi maggiormente alimentano i flussi migratori registrano i tassi di sviluppo più rilevanti (sempre nel decennio 2005-2015 e comunque prima della caduta dei prezzi del petrolio, tra le principali risorse di questi Paesi, insieme alle materie prime). «Il rapporto tra sviluppo e migrazioni – osservano da Fondazione Moressa – è controverso e non è auto- matico che la crescita economica freni le migrazioni. Questo può avvenire nel lungo periodo (come nell’Italia del dopoguerra), ma nel breve periodo probabilmente le incentiva, dando qualche risorsa in più a chi vuole partire. Probabilmente è quello che sta avvenendo ora in Africa (in Nigeria in particolare), senza contare che la situazione è resa più complessa dalle questioni politiche (conflitti, terrorismo, instabilità, sfruttamento e miseria diffusi), per cui in molti casi è difficile distinguere migranti economici e profughi».
I numeri? Nel 2005 la Ue a 28 deteneva il 31% del Pil mondiale, pari a quasi 11.600 miliardi di euro. Dieci anni dopo è sì arrivata a sfiorare i 15mila miliardi, ma la sua quota sul Pil del globo (66mila miliardi) è scesa al 22%, superata dagli Usa, che hanno girato la boa dei 16mila miliardi (+54%) e ora, alle spalle la crisi innescata nel 2007, hanno in mano un quarto della ricchezza del pianeta. Ma a sorprendere sono i tassi di sviluppo a tre cifre di altri Paesi, come la Cina (che ha quintuplicato il suo Pil, sfiorando i 10mila miliardi), l’Africa, l'India o il Brasile.
Ciò non toglie che il Sud del mondo, in particolare l’Africa, continui ad avere un Pil bassissimo sia totale (2mila miliardi, un settimo della Ue a 28) sia pro capite (1.700 euro contro 29mila), un’aspettativa di vita ridotta anche se in miglioramento (61 anni contro 81), un tasso di natalità altissimo (35 per mille contro il 10 per mille), un’alta mortalità infantile, enormi diseguaglianze, un welfare inesistente.
Fattori demografici ed economici, oltre che sociali, politici e ambientali, continuano quindi a spingere il Sud del mondo, soprattutto le giovani generazioni (25 anni è l’età media del migrante), a partire verso un’Europa sempre più anziana e rallentata nella crescita. Un “continente vecchio” al quale servirebbe un nuovo sguardo, in grado di valutare esigenze e risorse sia entro i confini nazionali sia nelle aree del mondo svantaggiate (che stagnanti non sono né prive di progressi) per capire come regolare o prevenire l’aumento dei flussi migratori, superando la logica degli interventi estemporanei o di chiusura con un progetto, invece, di ampio respiro. Come – ricordano da Fondazione Moressa – il Migration compact, il piano di investimenti avviato nel 2016 dalla Ue su proposta italiana, al quale però fa difetto una maggiore partecipazione dei singoli Stati membri.