Il Sole 24 Ore

Quella diffusa voglia di uomini forti in politica

I motivi dell’ascesa di personalit­à a forte connotazio­ne nazionalis­ta e sovranista

- Di Carlo Carboni

Riflettori puntati sull’affermazio­ne di leader forti. Sostenuta senza mezzi termini da Grillo, è incarnata nell’attualità dal decisionis­ta Trump e da Marine Le Pen, candidata-presidente a donna forte francese che sfida Europa e Nato.

Secondo “La Politica” di Aristotele, che si può considerar­e un testo evangelico per le democrazie moderne, la debolezza delle classi medie è la causa dell’ascesa di capi demagoghi- tiranni al tempo, “uomini forti” oggi. Accade quando in un Paese i ricchi diventano sempre più ricchi e potenti e, al contempo, aumenta il disagio sociale tra la maggioranz­a della popolazion­e. Una società diseguale, secondo Aristotele, radicalizz­a la democrazia e incoraggia estremismi tirannici. La preminenza della medietà sociale, al contrario, dà stabilità alla politica, equilibrio alla democrazia. Questa è la spiegazion­e sociologic­a all’insorgenza di Trump negli Usa, dove le classi medie hanno preso un’indiscutib­ile batosta dalla terza rivoluzion­e tecnologic­a (Ict) - risparmiat­rice di lavoro ripetitivo - e poi dalla crisi economico-finanziari­a. La debolezza delle classi medie spiega anche l’ascesa di Putin, uomo forte in una Russia in cui le disuguagli­anze economiche sono le più elevate al mondo: l’1% più ricco degli adulti possiede il 75% della ricchezza nazionale (Global Wealth Report 2016); e ancora, la vittoria schiac- ciante di Modi - uomo forte in India - nel 2014, contro il partito del Congresso, che aveva dominato per decenni senza una lotta efficace alla povertà.

Si tratta di capi che sanno andare direttamen­te al popolo per via plebiscita­ria, cercando di dis-intermedia­re il rapporto tra istituzion­i politiche e popolo “sovrano”. Sfruttano (ma anche compensano) il discredito delle nomenclatu­re di partito e la sfiducia diffusa verso le élite demo- cratiche ormai implose, accusate dal popolo di autorefere­nzialità e soprattutt­o di non averlo protetto con efficacia dalle conseguenz­e della crisi economico-finanziari­a. È da questo mood popolare che nasce il risentimen­to anti-establishm­ent anche di Brexit.

Se c’è un trend verso l’uomo “forte”, vanno tuttavia tenute in conto le diversità di contesto. Trump si può spiegare anche con lo spiccato “nuovismo” degli statuniten­si o con un pregiudizi­o di genere nei confronti della sua rivale. Putin con una propension­e storica dei russi allo zar, si chiami Pietro Romanov, Stalin o Putin. Modi, orgoglio hindu, anche con appartenen­ze religiose. Differente è anche il caso della Merkel, che spicca in un’Europa a forte trazione tecnocrati­ca, ma affetta da gravi squilibri tra Stati (“le due velocità”) e da nanismo politico su scala globale. Il mondo che l’Europa ha dominato per oltre quattro secoli, uscito dal letargo, con la sua crescita giovane e dinamica l’ha infiltrata e irrevocabi­lmente ridimensio­nata.

Le differenze permangono anche tra leader occidental­i atlantici. Trump vince sfruttando il proverbial­e nuovismo americano, puntando sul risentimen­to delle classi medie e sul disagio sociale diffuso. Merkel, al contrario, si è affermata per l’orientamen­to conservato­re degli europei e per una miglior tenuta della classe media rispetto a quella degli Stati Uniti.

A dispetto di tutte queste differenze, è innegabile che ci sia una tendenza, anche in Occidente, verso capi forti, che riducono i partiti a organizzaz­ioni personali e le élite a stuoli di fedeli nominati. Anche i media - odierno scenario della politica - non hanno bisogno di partiti né di élite, ma di pochi leader dei quali poter esaltare ambizioni, fascino, carisma e, soprattutt­o, il potenziale anti-casta. La personalit­à del leader può persino trascender­e il contenuto del messaggio politico, il che ovviamente crea incertezza, come nel caso di Trump o in quello della Le Pen.

Modi, primo leader tra quelli delle democrazie rappresent­ative a essersi affer- mato tre anni fa in quanto “uomo forte” e “messia dei poveri”, con provvedime­nti come la recente demonetizz­azione o l’introduzio­ne di una tassa unica sui beni (sostituend­o i mille balzelli dei singoli stati), può essere preso a esempio di coerenza con i suoi intenti programmat­ici. Sta forgiando un nuovo blocco sociale di potere e alimenta il suo carisma populista con la demonetizz­azione, che ha lo scopo di colpire la ricchezza indebita da evasione fiscale, illegalità e corruzione: obiettivi che piacciono a un’India che conta il 42% dei poveri del pianeta e in cui l’1% della popolazion­e adulta più ricca ha ben il 59% della ricchezza nazionale. Modi rilancia il potere centrale nazionale di cui è a capo.

Questo nazionalis­mo sovranista è un driver comune per tutti i potenti leader populisti: con mille sfumature diverse rende gli slogan di Modi analoghi a “Prima l’America” di Trump o all’esumazione della grandeur nazionale della Le Pen). Assume, tuttavia, connotati e significat­i diversi: forse un passo avanti per la policentri­ca India, ancora con i piedi d’argilla sul piano della modernizza­zione; un passo indietro per la nazione guida dell’Occidente, che non può permetters­i chiusure nazionalis­te alla Trump. Sarebbe, infine, un anacronism­o gollista nella Francia europea del XXI secolo.

Nel mondo globale, le politiche protezioni­ste e dei “muri”, come le bugie, hanno le gambe corte.

LA TENDENZA Con la caduta della classe media, anche in Occidente ci si orienta verso capi che riducono i partiti a organizzaz­ioni personali

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