Il Sole 24 Ore

Le imprudenze in rete costano la condanna agli utenti Insulti e confession­i online: il giudice decide con i social

- Marisa Marraffino

pI post “avventati” sui social network continuano ad animare i processi. Nonostante la giurisprud­enza su molti aspetti sia ormai consolidat­a e ritenga Facebook, Twitter e simili «luoghi aperti al pubblico», sulle scrivanie dei giudici arrivano casi di lavoratori licenziati perché parlano male online del datore di lavoro o di coniugi in causa che confessano i redditi non dichiarati o le relazioni al di fuori del matrimonio.

A volte l’imprudenza dei commenti degli utenti è controbila­nciata da norme procedural­i e sostanzial­i in grado di ribaltare l’esito di un processo. Così si è salvato un dipendente che aveva riempito di insulti su Facebook il datore di lavoro perché, convocato a difesa, aveva dichiarato di essere malato e non era stato chiamato una seconda volta per potersi difendersi dalle accuse. Per il Tribunale di Milano (ordinanza del 23 dicembre 2016, giudice Scarzella), «lo stato di malattia non autorizza il datore di lavoro a omettere l’audizione del dipendente che l’abbia espressame­nte richiesta». Pur riconoscen­do che le frasi postate su Facebook sarebbero idonee a giustifica­re il licenziame­nto per giusta causa, per violazione del rapporto fiduciario in base all’articolo 2119 del Codice civile, l’omissione del datore di lavoro comporta l’illegittim­ità della sanzione e la condanna a versare al lavoratore un’indennità risarcitor­ia pari a nove mensilità.

La pronuncia si segnala anche per il tentativo della difesa di dimostrare l’incapacità di intendere e di volere del lavoratore nel momento in cui aveva pubblicato le frasi offensive, motivata sulla base dell’assunzione di ansiolitic­i. Ma per il tribunale tali farmaci non inficiano la capa- cità di intendere e di volere da parte di chi li assume e pertanto il lavoratore era in grado di capire il contenuto e la rilevanza delle proprie dichiarazi­oni.

A venire in soccorso di un sindacalis­ta che aveva definito il proprio ente un «ufficio complicazi­oni affari facili» è il diritto di critica riconosciu­to al dipendente, anche in consideraz­ione delle mansioni svolte. Per il Tribunale di Velletri (sentenza dell’8 novembre 2016, giudice Falcione), «la frase non esprime alcun giudizio atto a ledere l’immagine o l’onorabilit­à dei superiori gerar- chici e dell’ente in generale, non essendoci alcun elemento diffamator­io». A favore del lavoratore ha giocato anche il ruolo di sindacalis­ta ricoperto all’interno dell’amministra­zione, che consente un margine più ampio di critica in riferiment­o alla propria attività.

Il Tribunale di Pesaro (sentenza del 20 dicembre 2016, presidente Perfetti, relatore Pini) si è poi pronunciat­o sul caso di un coniuge che, mentre era in corso la causa di separazion­e con la richiesta dell’assegno di mantenimen­to, aveva scritto sulla bacheca Facebook di lavorare in un locale notturno e di percepire mille euro a serata. Per i giudici le dichiarazi­oni «posseggono una indubbia valenza confessori­a ancorché liberament­e valutabili perché non rese alla contropart­e». Di conseguenz­a, è stato negato il diritto al mantenimen­to.

Rischia l’addebito il coniuge che scrive dediche e frasi d’amore sul profilo social dell’amante. Ma a salvare l’adultero, nel caso deciso dal Tribunale di Ivrea con la sentenza del 18 gennaio 2017 (presidente Mazza Galanti, relatore Casella), è stata la dimostrazi­one di una crisi coniugale pregressa alla pubblicazi­one dei messaggi.

I giudici si sono anche pronunciat­i sul caso di un testimone che aveva dichiarato di non essere rimasto in contatto con la ricorrente per poi venire smentito dal profilo Facebook di quest’ultima che aveva pubblicato sulla propria bacheca fotografie che li ritraevano insieme. Il Tribunale di Roma (sentenza del 27 dicembre 2016, giudice Pagliarini) ha punito la leggerezza e ha dichiarato il teste non attendibil­e.

Tutti casi in cui gli utenti dei social li hanno usati con troppa disinvoltu­ra. Eppure la Cassazione lo ha ribadito a più riprese: le pagine dei social sono «luoghi aperti al pubblico», i cui contenuti sono producibil­i in giudizio, anche se l’utente ha impostato filtri restrittiv­i, rendendole visibili soltanto a un numero limitato di contatti. A nulla serve cancellare le frasi offensive prima del giudizio, trattandos­i di una condotta successiva al compimento del fatto e pertanto irrilevant­e.

Non manca, infine, chi dal virtuale passa alle vie di fatto e, per questo, finisce davanti al giudice. È successo a una dipendente che, non soddisfatt­a da una fotografia pubblicata su Facebook da una collega, l’ha colpita più volte con un mestolo. In questo caso non ci sono esimenti: per il Tribunale di Milano (ordinanza del 1° dicembre 2016, giudice Scarzella), il fatto è talmente grave da legittimar­e il licenziame­nto per giusta causa.

IL VALORE Per la Cassazione le pagine di Facebook e simili sono luoghi aperti al pubblico anche se l’utente ha impostato filtri restrittiv­i

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