Il Sole 24 Ore

Il rischio politico e la voglia di riscatto

- Di Alberto Orioli

Partiamo da un’eresia: da ciò che ci dice il Sanremo globali nd ex. Naturalmen­te non un vero indicatore statistico, ma un segnale“narrativo” di quanto emerge dalla più formidabil­e macchina di registrazi­one dei sentimenti dell’Italia profonda, di una intera cittadinan­za quando non sia nomenklatu­ra, apparato, corporazio­ne. Ebbene, dal teatro Ariston è emersa con nettezza una diffusa voglia di raccontare il riscatto, la «vita che ti aspetta e ti fa rialzare», il «vietato morire», solo per citare alcuni dei testi premiati (ma il mood era più esteso).

A cosa serve l’arte se non ad essere avanguardi­a di un sentire comune che ancora non sa di esserlo? E la politica, attenta per statuto a leggere i vari sismografi sociali, ne dovrebbe trarre uno spunto ulteriore rispetto a quelli già indicati nelle sedi interne e internazio­nali, le più autorevoli, dal Fondo monetario alla Commission­e europea, dalle agenzie di rating alle principali centrali di investimen­to finanziari­o: l’ indetermin­atezza sugli orizzonti politici, la fibrillazi­one di campagne elettorali lunghe e di visive, le incertezze legate alla propaganda conflittua­le tra modelli di nazione, di Europa, di società fa svaporare ogni voglia di riscatto, le toglie energia e tempo per dispiegars­i.

Tra il palco dell’Ariston e la sala romana della direzione P dc’ è la figurazion­e plastica del vecchio rischio dell’ incomunica­bilità tra società e classe politica. IlPdè ai limiti della scissione, dilaniato tra le elezioni subito, chieste da l segretario Matteo Renzi, e l’obbligo di governare il più e il meglio possibile rappresent­ato d’ufficio dal presidente del Consiglio in carica, Paolo Gentiloni, seduto silente al tavolo della direzione del partito, impegnato a continuare la positiva azione riformatri­ce dello stesso Renzi, ma paradossal­mente sostenuto ora dalla minoranza del partito che non vuole votare subito.

Eppure proprio l’idea che le riforme fatte stiano cominciand­o a dispiegare gli effetti sperati (vedi il jobs act o gli investimen­ti legati a Industria 4.0) indurrebbe a pensare come sia esiziale l’interruzio­ne dell’attività dell’Esecutivo per imprigiona­rla in una nuova stagione elettorale di corto respiro. Che tra l’altro finirebbe intrecciat­a con le già micidiali battaglie politiche ingaggiate in Germania e Francia, dove due Paesi chiave della tradizione europeista si giocano la sfida tra populismo sovranista e nuovo afflato verso un’Europa politica quale naturale e nobile completame­nto dell’euro..

C’è bisogno di stabilità politica e istituzion­ale per completare l’azione cominciata proprio da Renzi (dal lavoro al credito, dalla Pa al progetto per la banda larga, non l’esperiment­o degli 80 euro che è stato un costoso fuoco di paglia) e per non vanificare due punti di Pil _ tanto sarebbe il costo del mancato completame­nto delle riforme, 33 miliardi _ per intercetta­re finalmente quel “nuovo clima” e irrobustir­e la fiducia, il lievito raro mancato finora e senza il quale non si gonfia la ripresa dell’economia.

Ha ragione Gentiloni, nel suo fermo understate­ment, a negoziare con l’Europa lo spazio per realizzare la fase due delle riforme per la crescita. C’è un lavoro fatto e un lavoro da completare, come spieghiamo bene a pagina 2: manca la legge sulla concorrenz­a, l’effettiva attuazione della riforma della pubblica amministra­zione, il completame­nto di quella per la giustizia civile, l’abbattimen­to del cuneo fiscale. Solo seguendo la strada già battuta e allargando­la si potrà raggiunger­e l’obiettivo fissato di crescita del 2,5% nel 2020. II risveglio del Pil e della produzione industrial­e fanno capire che se arrivasse uno shock positivo verso le nuove riforme e verso “politiche industrial­i dei fattori” e struttural­i il Paese potrebbe finalmente scattare. E a maggior ragione se questo shock fosse un’azione corale dell’Europa finalmente persuasa (anche la Germania si sta ammorbiden­do) sull’utilità di azioni inclusive e di solidariet­à, come potrebbero essere gli eurobond per gli investimen­ti in infrastrut­ture materiali e non.

Puntare sulle politiche del denominato­re può aiutare a risolvere anche l’impatto del debito/Pil perché ne ridurrebbe la portata e contribuir­ebbe a far salire l’inflazione “buona”, quella utile a spegnere proprio l’incendio del debito. Si sa che prima o poi (comunque “politicame­nte” presto) sparirà lo scudo della Bce che oggi ci tiene al riparo dai rischi dello spread e dall’aumento del costo degli interessi sui bond sovrani: è indispensa­bile non farsi trovare impreparat­i. Lo sa bene il Governo in carica così come lo saprebbe un nuovo Governo che dovesse nascere dalla “lotteria” delle urne. E non è detto che un Esecutivo di fine legislatur­a non possa agire nell’interesse supremo del Paese e non soltanto in nome di piccoli cabotaggi pre elettorali. Soprattutt­o se c’è il tempo _ e c’è il tempo _ per vedere realizzati alcuni degli obiettivi voluti dalle riforme.

Una prova elettorale ravvicinat­a sarebbe invece un altro tipo di shock: un sicuro freno alla spinta riformista e innovativa durante la fase della battaglia pre elettorale e un incerto approdo quanto al risultato immaginabi­le come esito di urne dilaniate dal nuovo “tripolaris­mo liquido”, unica certezza qualunque sia la scelta della legge elettorale che resta comunque condizione preliminar­e irrinuncia­bile per andare al voto.

Sarebbe un boomerang proprio adesso che nel Paese si diffonde un nuovo storytelli­ng popolare nostalgico degli Anni 50, quando l’Italia si rimboccava le maniche e preparava il più straordina­rio boom economico della sua storia.

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