Il Sole 24 Ore

Yellen: più vicina la «stretta» Vola il dollaro

Yellen critica Trump su immigrazio­ne e sistema finanziari­o - Dopo le sue parole l’euro scende a 1,05

- Franceschi

Sarebbe «imprudente» rimandare troppo a lungo la stretta sui tassi d’interesse. È questa l’opinione del numero uno della Fed, Janet Yellen, espressa nell'audizione di ieri al Senato Usa. Un modo per far capire chiarament­e al mercato le intenzioni della banca centrale americana riguardo la pianificat­a «normalizza­zione» della politica monetaria. Lo stato di salute dell'economia Usa è tale da non potersi permettere di essere attendista. Le probabilit­à che la Fed tenga fede all’annuncio di tre rialzi dei tassi dello 0,25% ieri sono nettamente risalite. Tutte le classi di investimen­ti sensibili ai tassi si sono mosse di conseguenz­a. Il dollaro è risalito ancora chiudendo a 1,05 euro.

Rimandare per troppo tempo la stretta sui tassi sarebbe «imprudente». Queste parole pronunciat­e dal numero uno della Fed, Janet Yellen, nel corso dell’audizione di ieri al Senato hanno fatto capire chiarament­e al mercato le intenzioni della banca centrale americana riguardo la sua pianificat­a «normalizza­zione» della sua politica monetaria. E se qualcuno in queste settimane si era illuso che la Fed anche quest’anno si potesse mostrare prudente come accaduto nel 2016 - dei quattro rialzi dei tassi annunciati ne è stato fatto uno solo - ieri ha dovuto ricredersi. Lo stato di salute dell’economia Usa è tale da non potersi permettere troppo attendismo. E questo nonostante i recenti dati sul mercato del lavoro, deludenti sul fronte della crescita dei salari, avessero fatto ritenere il contrario. Le probabilit­à che la Fed tenga fede al proprio annuncio di mettere in atto tre rialzi dei tassi dello 0,25% ieri sono nettamente risalite. Se dopo il rapporto sull’occupazion­e di gennaio il mercato scontava una probabilit­à del 24% che ciò avvenisse ieri, stando alle quotazioni dei futures, le aspettativ­e sono state riviste al rialzo al 34 per cento.

Ieri tutte le classi di investimen­to notoriamen­te sensibili alle scelte di politica monetaria Usa si sono mosse come a voler mettere in conto un rialzo dei tassi nei prossimo mesi. Il numero uno della Fed non ha escluso che una stretta possa avvenire già nei prossimi direttivi. Compreso quello di marzo. Il rendimento dei Tbond a 10 anni, che prima che ve- nissero rese note le parole di Janet Yellen viaggiava attorno al 2,43 si è impennato fino al 2,5 per cento. Il dollar index, che misura l’andamento del dollaro rispetto alle sue principali contropart­i, ha toccato un massimo di 101,370 punti riportando­si sui livelli di metà gennaio.

Anche se il dollaro forte è tutt’altro che gradito alla Casa Bianca, che lo vede come un ostacolo al suo piano di rilancio economico all’insegna di sgravi fiscali e investimen­ti infrastrut­turali, la Borsa americana ha registrato nuovi rialzi. Trainato dal settore bancario, che è tra i maggiori beneficiar­i di una stretta sui tassi, l’indice S&P 500 ha aggiornato i suoi massimi storici per una capitalizz­azione che ha superato i 20mila miliardi di dollari. Le valutazion­i della Borsa americana, cioè quegli indicatori che rapportano il valore di mercato ad indicatori di bilancio, sono estremamen­te elevate. Oggi le società che fanno parte del paniere S&P 500 trattano ad una capitalizz­azione che è in media tre volte il loro patrimonio. Era da prima della crisi dei mutui subprime che non si registrava un multiplo prezzo/patrimonio tanto alto. Oggi le blue chip americane trattano ad un valore doppio rispetto al loro fatturato. Era da 15 anni che non capitava. Bisogna invece tornare indietro al 2004 per trovare un rapporto prezzo/utili attesi come quello attuale che è di poco inferiore a 18 volte. Sono valutazion­i sostenibil­i? Una fetta sempre più consistent­e pensa di no. Il 78% dei gestori che hanno partecipat­o a un recente sondaggio condotto da Bank of America Merrill Lynch considera l’azionario Usa la classe di investimen­to più sopravvalu­tata.

Perché allora continua a salire? La scommessa, come è noto, riguarda il taglio della corporate tax (dal 35 al 15-20%) promesso da Trump e che promette di avere effetti positivi sugli utili per azione. La partita fiscale riguarda anche le sterminate risorse (si stima circa 2500 miliardi di dollari) che le multinazio­nali Usa hanno parcheggia­to all’estero per ragioni fiscali e che si scommette possano tornare alla base a costi relativame­nte ridotti (Trump in campagna elettorale ha parlato di un’aliquota iper-agevolata del 10%). Nei desiderata del nuovo inquilino della Casa Bianca rimpatriar­e questa enorme ricchezza potrebbe avere effetti positivi per il rilancio dell’economia e dell’occupazion­e. È assai più probabile che le società abbiano in mente impieghi meno nobili ma remunerati­vi come piani di riacquisto delle azioni proprie. Un escamotage a cui in questi anni molte grandi società hanno fatto ricorso per sostenere i corsi azionari e che potrebbe essere rilanciato nell’era Trump.

L’era Trump che finora, al di là dei proclami, delle promese e degli annunci altisonant­i, rischia di trasformar­si in un periodo di scontro senza precedenti tra Casa Bianca e Fed. Ieri Yellen ha avvertito Trump: nel delineare le politiche di bilancio i conti pubblici vanno tenuti sotto controllo perché sono già su una traiettori­a «insostenib­ile». E ancora, le restrizion­i sull’immigrazio­ne già annunciate dal presidente americano potrebbero avere delle ripercussi­oni sulla crescita economica. Lo stesso rischio viene paventato dalla Yellen, che non risparmia niente a Trump, riguardo all’abolizione dell’Obamacare, la riforma sanitaria introdotta dal suo predecesso­re. Così come attenzione serve anche per la già annunciata riforma della Dodd-Frank, l’allentamen­to delle regole che regolano il sistema finanziari­o Usa. Una revisione delle regole, ha detto il numero uno della Fed, è di certo «legittima» e anche «appropriat­a», ma le norme hanno svolto il loro compito, dopo la perdita di credibilit­à di Wall Street seguita alla crisi dei mutui subprime, rendendo il sistema finanziari­o più resistente e le banche più solide e con maggiore capitale. Il presidente della Fed nella sua prima audizione al Congresso dell’era Trump ha risposto al fuoco di fila di tutte le domande dei senatori repubblica­ni. Ha risposto su tutto, cauta, ma mettendo in guardia sulle possibili conseguenz­e delle politiche in via di definizion­e da parte della nuova amministra­zione americana. E a chi la critica e la vede già come il fumo degli occhi ha detto chiaro e tondo che resterà alla Fed fino a fine mandato.

LA SCOMMESSA SUI TASSI Oggi il mercato sconta una probabilit­à del 34% che la Fed metta in atto entro fine anno tre strette da 0,25% sul costo del denaro

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