Come proteggere il denaro dal protezionismo di Trump
«Protezionismo = inflazione». È con questa semplice, immediata, perfino banale equazione che gli economisti hanno salutato la sterzata promessa da Donald Trump a un’economia dominata negli ultimi decenni dal mito della globalizzazione. Altrettanto logica poi la conseguente scelta dei gestori di privilegiare nella scelta dei portafogli le attività che danno il meglio di sé negli scenari di crescita dei prezzi e di espansione economica (a partire dalle azioni legate al ciclo economico) a scapito di quelle tendenzialmente più difensive (i titoli di Stato anzitutto).
Le faccende sui mercati non sono però mai così semplici, e non soltanto perché il nuovo inquilino della Casa Bianca deve ancora passare dalle parole ai fatti. Uno studio di Ubs misura per esempio gli effetti di un eventuale aumento dei dazi doganali in misura del 10% e del contestuale sostegno all’export da parte degli Usa per scoprire che sì, gli effetti in patria sono quelli sbandierati dalla teoria, cioè una crescita supplementare del Pil dello 0,9% e un impatto sempre aggiuntivo sui prezzi dello 0,8 per cento. Ma che a questi occorre anche sommare le conseguenze diametralmente opposte sul resto del mondo che subisce il protezionismo: un rallentamento dello 0,4% della crescita e dell’1,4% sull’inflazione.
Per Ubs il gioco, a livello globale, rischia davvero di risultare a som- ma negativa, non fosse altro perché il resto del mondo vale economicamente 4 volte gli Stati Uniti e basterebbe forse solo questa osservazione per far cadere certe convinzioni su quali investimenti siano davvero da privilegiare. Quando poi si concentra l’attenzione sulle obbligazioni (che mantengono pur sempre un ruolo di rilievo nei portafogli degli italiani) vale la pena di fare qualche considerazione in più. Ci sono certo ragionevoli indizi del fatto che la fase rialzista del mercato dei bond (che va avanti addirittura dal 1981) sia ormai giunta al termine, a maggior ragione se l’atteggiamento della Federal Reserve sui tassi dovesse dimostrarsi più aggressivo delle attese come lasciava presagire ieri il presidente Janet Yellen.
Al di fuori degli Stati Uniti però la situazione rischia di cambiare in modo sostanziale, dato che l’arretramento del commercio globale (e quindi della crescita) può sfociare nella tanto temuta «stagflazione»: ridurre in modo significato l’esposizione o privarsi del tutto dei bond sarebbe quindi una strategia sbagliata perché «in uno scenario simile - come osserva Andrea Iannelli, Investment director per l’obbligazionario di Fidelity International - i titoli a reddito fisso possono comunque funzionare da “polizza assicurativa”, riducendo la volatilità complessiva e contribuendo a ottenere rendimenti costanti».
La considerazione vale a maggior ragione per l’Eurozona, «la cui dinamica macro potrebbe uscire gravata da un rallentamento della crescita per via di un’ulteriore svalutazione dell’euro che non vedrebbe però un ritorno altrettanto significativo in termini di esportazioni proprio a causa dei dazi posto dagli Usa», aggiunge Paolo Geuna, financial analyst di Tendercapital. Il rischio, in quest’ultimo caso, è che la Bce si trovi di nuovo di fronte a uno scenario di stagnazione economica senza però disporre delle armi del quantitative easing: «a vincere in condizioni simili - sottolinea Geuna - potrebbero risultare proprio i detentori del reddito fisso dell’Eurozona», e quindi anche chi conserva i nostri BTp.
In una situazione del genere la scelta dell’emittente acquista ancora maggiore importanza e se Geuna invita a «preferire quelli con una quota contenuta di vendite Oltreatlantico», Iannelli sottolinea invece come «economie diverse fra loro reagiscono in maniera differente all’inasprimento delle barriere commerciali e altrettanto faranno le diverse banche centrali che, almeno nei Paesi con forte propensione all’export dovranno allentare la politica monetaria per supportare la crescita, aiutando a loro volta i mercati nazionali del reddito fisso». Seguendo quest’ultima indicazione, l’esposizione verso il debito dei Paesi vittima del protezionismo Usa sarebbe addirittura da aumentare: paradossi di una fase di transizione da globalizzazione a neo-protezionismo al quale i mercati devono in fondo ancora prendere le misure.