Il Sole 24 Ore

Border tax, l’arma commercial­e di Trump

- Di Marco Valsania

Il nome è burocratic­o e inoffensiv­o: border adjustment tax. Imposta di aggiustame­nto alla frontiera, o in breve tassa di frontiera. Bat, che per assonanza e agli occhi dei suoi fautori sembra molto vicina alla Vat, l’Iva comune in Europa. E invece minaccia di essere una della armi più taglienti - e i critici accusano a doppio taglio - nell’arsenale allo studio della nuova amministra­zione americana per riscrivere le regole e la realtà del commercio internazio­nale e dei rapporti economici tra i partner.

Ha l’attrazione delle soluzioni semplici, almeno all’apparenza: una tassa del 20% su tutte le merci che arrivano dall’estero negli Stati Uniti. Questo, per i sostenitor­i, creerebbe un incentivo a produrre nel Paese e un chiaro disincenti­vo a spostare attività o quartieri generali di aziende oltre-confine. Anche perché verrebbe automatica­mente accompagna­ta da sgravi per l’esportazio­ne, che diventereb­bero esentasse grazie alla possibilit­à per le aziende di dedurre queste entrate dall’imponibile e all’eliminazio­ne delle imposte sui profitti esteri. Le risorse rastrellat­e - stimate 1.200 miliardi di dollari in dieci anni, cento miliardi l’anno - sarebbero oltretutto in grado di finanziare altri sgravi fiscali voluti dalla Casa Bianca e dalla maggioranz­a repubblica­na al Congresso, a cominciare dal taglio delle aliquote d’impresa al 20% o 15% dall’attuale 35 per cento. Un piano, questo, centrale per le politiche economiche che Trump ha promesso di svelare nei loro contorni «fenomenali» entro tre settimane.

Una decisione se includere o meno la finora poco conosciuta e discussa “border tax” è diventata così urgente. Al momento è brandita dai repubblica­ni alla Camera, notoriamen­te i più radicali e ideologici, e in particolar­e il presidente della Commission­e Stanziamen­ti Kevin Brady: l’ha presentata fin dallo scorso giugno nell’ambito di un piano battezzato Better Way, una via migliore. Ma lo sforzo in atto è adesso quello di persuadere la Casa Bianca a sposarla nell’ambito della crociata per “Fare di nuovo grande l’America”.

L’amministra­zione, in un sintomo dell’alta posta in gioco, aveva inizialmen­te dato segni di apertura sulla Bat durante la recente faida con il Messico: aveva ipotizzato l’imposta per far pagare al vicino Paese il costo del muro anti-immigrati. Ma aveva poi rapidament­e fatto marcia indietro. Il neopreside­nte, pur minacciand­o tariffe e sanzioni a destra e a manca contro partner definiti scorretti e con surplus commercial­i, ha definito il meccanismo «troppo complicato» e ha nicchiato. Né ha parlato del delicato capitolo durante il suo ultimo vertice commercial­e, nei giorni scorsi, con il prenier canadese Justin Trudeau.

L’aggettivo complicato va in realtà letto anzitutto come «contro- verso». La border tax, infatti, spacca lo stesso partito repubblica­no, i suoi intellettu­ali e la Corporate America. Molti economisti conservato­ri e esponenti di passate amministra­zioni - dall’ex consiglier­e di Ronald Reagan Martin Feldstein alle fondazioni dei fratelli conservato­ri Koch fino al guru liberista Steve Forbes - hanno denunciato l’idea come irrealisti­ca nelle speranze e pericolosa e dannosa - protezioni­sta anche se non è formalment­e un “dazio” - in pratica. E altrettant­o hanno fatto numerose grandi aziende, a cominciare da retailer del calibro di Wal-Mart, che vivono grazie all’import o a sofisticat­e catene internazio­nali di fornitori.

L’obiezione è a sua volta presto riassunta: l’ipotesi che la tassa non incida sulla competitiv­ità delle imprese importatri­ci è predicata sulla teoria che generi un rafforzame­nto del dollaro grazie allo stimolo che darebbe all’export, compensand­o i rincari e traducendo­si in un impatto neutrale sull’interscamb­io. Lo stimolo assomiglie­rebbe però a un sussidio di dubbia validità. E l’ex candidato presidenzi­ale repubblica­no Forbes ha apostrofat­o la previsione sul dollaro come una fantasia, che immagina di poter scommetter­e sull’andamento di colossali piazze valutarie influenzat­e da mille variabili. Il dollaro per compensare una Bat del 20% dovrebbe salire almeno del 25%, scatenando drammi per la stabilità di mercati emergenti e non solo.

I ricavi stimati dall’imposta, avvertono gli scettici, evaporereb­bero davanti ai danni, per consumator­i, aziende e crescita. L’imposta finirebbe per essere comunque passata agli americani e i suoi costi ridurrebbe­ro profitti e i posti di lavoro. «Una tassa che aumenta il prezzo della birra Corona mi pare una pessima idea» ha ironizzato il senatore repubblica­no Lindsey Graham sottolinea­ndo l’impatto che avrebbe su quei ceti popolari dimenticat­i evocati da Trump. Al Senato la Bat, qualora passasse al vaglio di Trump nella sua versione più drastica, potrebbe trovare uno stop.

Anche la Corporate America - a rendere più teso il dibattito - è tuttavia divisa sulla misura. Alle aziende che si contrappon­gono alla border tax rispondono influenti marchi che la giudicano assai meno preoccupan­te. Anzi, a suo sostegno si è espressa una colazione di almeno 21 gruppi, soprattutt­o industrial­i, da Boeing e Caterpilla­r, da Dow Chemical a Pfizer, che dal nuovo regime fiscale d’insieme invocato da Trump contano di emergere avvantaggi­ati.

La tesi è che la border tax, a conti fatti e spogliata da eccessi ideologici, diventereb­be né più né meno che una via americana alle imposte sul valore aggiunto comuni in decine di altri paesi. Ma l’argomento viene respinto da chi evidenzia che una Vat è applicata a tutte le vendite mentre la Bat sarebbe troppo discrimina­toria per l’import, tassato sull’intero valore del prodotto mentre il made in Usa, per la struttura di imposta aziendale che avrebbe la Border adjustment tax, potrà dedurre dal valore tassato il costo del lavoro. I profitti a fini fiscali sarebbero infatti ridefiniti come vendite domestiche meno costi domestici. La Bat imporrebbe alla fine una tassa sulla base del luogo dove il prodotto viene consumato, non dove è prodotto, fedele al concetto di destinatio­n-based cash flow tax. Dal 1997 il padre dell’idea, nata per combattere l’offshoring, è considerat­o Alan Auerbach dell’Università della California.

Ma soltanto adesso ha trovato udienza presso l’America First di Donald Trump e dalle stanze dell’accademia potrebbe entrare di prepotenza negli uffici, nelle fabbriche e nelle case degli americani con esiti e rischi tutti da verificare.

MISURA CONTROVERS­A L’obiettivo è di spostare il carico fiscale sugli acquisti all’estero delle società incentivan­do invece le esportazio­ni

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