Se Trump «chiama» l’industria tedesca
Mentre i rapporti fra Washington e Berlino sono al loro punto più basso da 60 anni, le imprese tedesche stanno accelerando la loro espansione negli Usa. I bassi tassi di interesse, un mercato dei consumi in ripresa e politiche favorevoli alla reindustrializzazione sono abbastanza attraenti, sia per giganti come Bayer e Siemens sia per player più piccoli, da compensare le incertezze sul futuro atteggiamento di Trump verso le multinazionali straniere e da mitigare le preoccupazioni del mondo degli affari riguardo all’incertezza geopolitica globale.
Nel 2016 i tedeschi annunciarono 64 acquisizioni di aziende statunitensi per un valore di 88,5 miliardi di dollari. Bayer si arrogò la parte del leone con il takeover di Monsanto (57 miliardi), ma accordi minori spaziarono dai settori ad alta tecnologia alla manifattura e ai prodotti di consumo.
Ora ci sono ragioni per investire negli Usa e il neo-protezionismo di Trump è una di queste. Le aziende che vogliono essere presenti sui mercati internazionali più ricchi o promettenti, ma protetti, si “nazionalizzano”. Se Trump alza le barriere, le grandi società puntano ad acquisire una base più estesa nel mercato americano per compensare l’eventuale calo di esportazioni verso gli Usa.
Il neo-protezionismo riporta in auge strategie di internazionalizzazione già sperimentate negli anni 30. Dopo un incontro con Trump, Bayer, per placare i timori sui possibili effetti sul settore agricolo Usa del suo takeover, ha promesso di creare negli Usa migliaia di posti di lavoro high-tech e di potenziare gli investimenti in ricerca. In particolare, nel mirino della Casa Bianca c’è l’industria dell’auto. Il presidente ha dichiarato che intende colpire con una tariffa del 35% auto e componenti prodotti in Messico e poi importati negli Stati Uniti. Ford, General Motors e Fiat Chrysler Automobiles hanno annunciato nuovi investimenti sul mercato interno, anche se in alcuni casi li avevano programmati da tempo.
I produttori tedeschi sono più vulnerabili degli altri. La Volkswagen, per esempio, importa più del 30% dei veicoli che vende negli Usa dal Messico, percentuale che si dimezza per le due più grandi case automobilistiche statunitensi, Gm e Ford. Poiché l’importazione di Bmw e al- tri marchi tedeschi dal Messico è minacciata, Berlino fa sapere che intende proteggere gli interessi dei costruttori tedeschi nelle sedi deputate.
Il punto è che il modello tedesco di economia trainata dalle esportazioni e con un netto surplus commerciale (la Germania ha il terzo più grande surplus verso gli Usa dopo Cina e Giappone, per 59,6 miliardi di dollari dovuti in parte alle sue Pmi esportatrici) è estremamente esposto a una rinascita del protezionismo.
Staccare la spina alla globalizzazione, come vorrebbe Trump, potrebbe minare le fondamenta del modello di business tedesco e la forza della Germania. A Berlino si è pronti a difendere gli accordi commerciali internazionali siglati dagli Usa precedentemente. E si pensa che ci si debba preparare a sostenere la Ue come interesse strategico tedesco, prevenendo Washington dall’interferire con gli affari interni dell’Unione anche rispetto alla Brexit.
Se la presidenza Trump è un sintomo di un interregno fra ordini economici – un periodo che sfocerà in un nuovo equilibrio fra Stato e mercato, come afferma Anatole Kaletsky - intanto le sue politiche neo-mercantilistiche stanno ripor- tando indietro di decenni i rapporti politico-economici del mondo.
Sta di fatto che, per entrare in una fase di crescita come promesso dalla nuova amministrazione, l’economia americana necessita di un altro importante fattore keynesiano, oltre al deficit spending: gli animal spirits. Ma come affermano gli economisti George Akerlof e Robert Shiller, ciò richiede la percezione della correttezza e di una narrazione non divisiva dell’economia. Il che è l’opposto dello storytelling sugli “alternative facts” diffuso dalla Casa Bianca. Tanto più che Trump, al contrario di alcuni suoi predecessori repubblicani come Ronald Reagan e George W. Bush, ha ereditato un’economia con la prospettiva di tassi d’interesse crescenti e un mercato del lavoro vicino al pieno impiego che lasciano poco spazio per manovre basate solo sullo stimolo fiscale.
In tal modo, indebolire la Germania e frantumare la Ue diviene un obiettivo, a un tempo, economico e geopolitico. Poiché costituisce anche un terreno d’accordo strategico fra Washington e Mosca. Per questo Berlino fa capire che, per quanto disposta ad aiutare una politica di riconciliazione con la Russia, ogni tentativo di svendere l’Europa dell’Est o di riconoscere l’annessione della Crimea è una linea rossa che l’Europa non può permettersi di attraversare.