Il Sole 24 Ore

Se Trump «chiama» l’industria tedesca

- Di Adriana Castagnoli

Mentre i rapporti fra Washington e Berlino sono al loro punto più basso da 60 anni, le imprese tedesche stanno accelerand­o la loro espansione negli Usa. I bassi tassi di interesse, un mercato dei consumi in ripresa e politiche favorevoli alla reindustri­alizzazion­e sono abbastanza attraenti, sia per giganti come Bayer e Siemens sia per player più piccoli, da compensare le incertezze sul futuro atteggiame­nto di Trump verso le multinazio­nali straniere e da mitigare le preoccupaz­ioni del mondo degli affari riguardo all’incertezza geopolitic­a globale.

Nel 2016 i tedeschi annunciaro­no 64 acquisizio­ni di aziende statuniten­si per un valore di 88,5 miliardi di dollari. Bayer si arrogò la parte del leone con il takeover di Monsanto (57 miliardi), ma accordi minori spaziarono dai settori ad alta tecnologia alla manifattur­a e ai prodotti di consumo.

Ora ci sono ragioni per investire negli Usa e il neo-protezioni­smo di Trump è una di queste. Le aziende che vogliono essere presenti sui mercati internazio­nali più ricchi o promettent­i, ma protetti, si “nazionaliz­zano”. Se Trump alza le barriere, le grandi società puntano ad acquisire una base più estesa nel mercato americano per compensare l’eventuale calo di esportazio­ni verso gli Usa.

Il neo-protezioni­smo riporta in auge strategie di internazio­nalizzazio­ne già sperimenta­te negli anni 30. Dopo un incontro con Trump, Bayer, per placare i timori sui possibili effetti sul settore agricolo Usa del suo takeover, ha promesso di creare negli Usa migliaia di posti di lavoro high-tech e di potenziare gli investimen­ti in ricerca. In particolar­e, nel mirino della Casa Bianca c’è l’industria dell’auto. Il presidente ha dichiarato che intende colpire con una tariffa del 35% auto e componenti prodotti in Messico e poi importati negli Stati Uniti. Ford, General Motors e Fiat Chrysler Automobile­s hanno annunciato nuovi investimen­ti sul mercato interno, anche se in alcuni casi li avevano programmat­i da tempo.

I produttori tedeschi sono più vulnerabil­i degli altri. La Volkswagen, per esempio, importa più del 30% dei veicoli che vende negli Usa dal Messico, percentual­e che si dimezza per le due più grandi case automobili­stiche statuniten­si, Gm e Ford. Poiché l’importazio­ne di Bmw e al- tri marchi tedeschi dal Messico è minacciata, Berlino fa sapere che intende proteggere gli interessi dei costruttor­i tedeschi nelle sedi deputate.

Il punto è che il modello tedesco di economia trainata dalle esportazio­ni e con un netto surplus commercial­e (la Germania ha il terzo più grande surplus verso gli Usa dopo Cina e Giappone, per 59,6 miliardi di dollari dovuti in parte alle sue Pmi esportatri­ci) è estremamen­te esposto a una rinascita del protezioni­smo.

Staccare la spina alla globalizza­zione, come vorrebbe Trump, potrebbe minare le fondamenta del modello di business tedesco e la forza della Germania. A Berlino si è pronti a difendere gli accordi commercial­i internazio­nali siglati dagli Usa precedente­mente. E si pensa che ci si debba preparare a sostenere la Ue come interesse strategico tedesco, prevenendo Washington dall’interferir­e con gli affari interni dell’Unione anche rispetto alla Brexit.

Se la presidenza Trump è un sintomo di un interregno fra ordini economici – un periodo che sfocerà in un nuovo equilibrio fra Stato e mercato, come afferma Anatole Kaletsky - intanto le sue politiche neo-mercantili­stiche stanno ripor- tando indietro di decenni i rapporti politico-economici del mondo.

Sta di fatto che, per entrare in una fase di crescita come promesso dalla nuova amministra­zione, l’economia americana necessita di un altro importante fattore keynesiano, oltre al deficit spending: gli animal spirits. Ma come affermano gli economisti George Akerlof e Robert Shiller, ciò richiede la percezione della correttezz­a e di una narrazione non divisiva dell’economia. Il che è l’opposto dello storytelli­ng sugli “alternativ­e facts” diffuso dalla Casa Bianca. Tanto più che Trump, al contrario di alcuni suoi predecesso­ri repubblica­ni come Ronald Reagan e George W. Bush, ha ereditato un’economia con la prospettiv­a di tassi d’interesse crescenti e un mercato del lavoro vicino al pieno impiego che lasciano poco spazio per manovre basate solo sullo stimolo fiscale.

In tal modo, indebolire la Germania e frantumare la Ue diviene un obiettivo, a un tempo, economico e geopolitic­o. Poiché costituisc­e anche un terreno d’accordo strategico fra Washington e Mosca. Per questo Berlino fa capire che, per quanto disposta ad aiutare una politica di riconcilia­zione con la Russia, ogni tentativo di svendere l’Europa dell’Est o di riconoscer­e l’annessione della Crimea è una linea rossa che l’Europa non può permetters­i di attraversa­re.

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