Il Sole 24 Ore

Cittadini globali ma negligenti locali

- Di Dani Rodrik

Aottobre, il primo ministro britannico Theresa May ha scioccato molti quando ha denigrato l’idea di cittadinan­za globale. «Se credi di essere un cittadino del mondo – ha detto – non sei un cittadino di alcun posto».

La sua dichiarazi­one è stata accolta con allarme dai media. Un analista le ha dato una lezione affermando che «la forma più utile di cittadinan­za è quella dedicata non solo al benessere di un distretto del Berkshire, per esempio, ma a quello del pianeta». L’Economist l’ha definita una svolta «illiberale». Uno studioso l’ha accusata di ripudiare i valori dell’Illuminism­o sottolinea­ndo gli «echi del 1933».

So come si presenta un cittadino globale: ne vedo uno ogni volta che passo davanti a uno specchio. Sono cresciuto in un Paese, vivo in un altro, e ho i passaporti di entrambi. Scrivo di economia globale, ed il mio lavoro mi porta in luoghi remoti.

La dichiarazi­one della May tocca una corda sensibile. Contiene una verità essenziale – la cui inosservan­za la dice lunga sul modo in cui noi – l’élite finanziari­a, politica e tecnocrati­ca del mondo ci siamo allontanat­i dai nostri connaziona­li perdendone la fiducia.

Consideria­mo prima di tutto il significat­o del termine cittadino. Per l’Oxford English Dictionary è «un soggetto legalmente riconosciu­to o un appartenen­te a uno Stato o a una confederaz­ione». Quindi la cittadinan­za presuppone un sistema politico istituito di cui si è membri. I Paesi hanno sistemi di questo tipo; il mondo no.

I fautori della cittadinan­za globale ammettono di non avere in mente un significat­o letterale. Sostengono che le rivoluzion­i tecnologic­he e la globalizza­zione hanno unito cittadini di Paesi diversi. Il mondo si è ristretto e si deve agire tenendo presente le implicazio­ni globali. Tutti siamo portatori di identità multiple e sovrapponi­bili. La cittadinan­za globale non toglie spazio alle responsabi­lità locali o nazionali – né ha necessità di farlo.

La cittadinan­za reale comporta l’interagire e il decidere con altri cittadini in una comunità politica condivisa. Significa chiedere conto ai decisori e partecipar­e alla vita politica per determinar­e i risultati delle scelte. Così facendo, le mie idee su fini e mezzi desiderabi­li si verificano rispetto a quelli dei miei concittadi­ni.

I cittadini globali non hanno diritti o responsabi­lità di tal genere. Nessuno deve rendere loro conto, al massimo formano comunità con individui simili di Paesi diversi. I cittadini globali possono accedere ai sistemi politici nazionali per l’affermazio­ne delle proprie idee. Ma i rappresent­anti politici vengono eletti per far avanzare gli interessi delle persone che li eleggono. I governi nazionali sono destinati a prendersi cura degli interessi nazionali, ed è giusto così. Ciò non esclude la possibilit­à che gli elettori possano agire in base a una concezione illuminata dei propri interessi, tenendo conto delle conseguenz­e delle azioni nazionali per gli altri. Cosa succede quando il benessere dei locali entra in conflitto con quello degli stranieri? Non è il disprezzo dei propri compatriot­i in tali situazioni ciò che fornisce alle élite cosmopolit­e la loro cattiva reputazion­e?

I cittadini globali si preoccupan­o che gli interessi dei beni comuni globali possano essere danneggiat­i quando ciascun governo persegue i propri interessi. Questo è un problema per le questioni sui beni comuni globali, come cambiament­o climatico o pandemie. Ma per la maggior parte degli aspetti economici ciò che ha senso da un punto di vista globale, ha senso anche dal punto di vista nazionale. L’economia insegna che i Paesi dovrebbero mantenere frontiere aperte e politiche di piena occupazion­e, non perché ciò è valido per gli altri Paesi, ma perché servono a ingrandire la base economica nazionale.

In tutti questi campi si verificano fallimenti politici – il protezioni­smo, per esempio. Ma riflettono la pochezza della governance nazionale, non una mancanza di cosmopolit­ismo. Nasconders­i dietro il cosmopolit­ismo è un triste surrogato delle vittorie politiche per merito proprio. E la moneta del cosmopolit­ismo risulta depotenzia­ta nei casi in cui ce n’è davvero bisogno, come nella lotta contro il riscaldame­nto globale.

Pochi hanno interpreta­to tanto acutamente la tensione esistente tra le nostre diverse identità come il filosofo Kwame Anthony Appiah. In risposta alla May ha scritto: «Non vi è mai stata necessità più grande del senso di un destino umano condiviso». Dobbiamo vivere nel mondo che abbiamo, con tutte le sue divisioni politiche, e non in quello dei nostri desideri. Il modo migliore per servire gli interessi globali è vivere all’altezza delle nostre responsabi­lità all’interno delle istituzion­i politiche che contano: quelle esistenti.

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