Il rischio politico brucia i dati buoni
«Èla politica, stupido!». Quando si osserva con attenzione le mosse dei mercati Europei negli ultimi mesi verrebbe proprio da parafrasare il famoso adagio di cui si servì nel 1992 Bill Clinton per sconfiggere George Bush senior nella corsa per la Casa Bianca. Dopo 25 anni dopo le prospettive sono ribaltate del tutto: Clinton alludeva al fatto che fossero le variabili economiche da riportare al centro della politica; oggi ci si riferisce ai mercati per ribadire come siano influenzati dal fattore politico ben oltre il solito.
Non è una novità che il tema dell’incertezza sulle elezioni programmate nel 2017 in mezza Europa stia condizionando l’andamento di Borse e bond, a maggior ragione dopo le «sorprese» Brexit e Trump uscite dalle urne lo scorso anno. Eppure fa sempre una certa sensazione notare che mentre in gran parte del Continente, compresa Francia e Germania, la fiducia dei consumatori e il clima fra le imprese misurato dagli indici Pmi viaggiano ai massimi degli ultimi anni, anticipando nei fatti una ripresa economica, le Borse stentino invece a ingranare la marcia e si mantengano (a differenza di Wall Street) ben sotto i record del 2015.
Questo divario fra la fiducia di famiglie e imprese e quella degli investitori nei confronti dell’Europa, che ieri Citigroup definiva «inusuale ed eccessivo», è in effetti difficile da non attribuire al rischio politico che, secondo gli indici di Economic Policy Uncertainty, da inizio 2015 è cresciuto del 60% in Germania ed è addirittura più che raddoppiato in Francia. Proprio quello transalpino è il Paese che nella fase attuale risente in misura maggiore dell’incertezza legata alle urne e alla possibile avanzata populista. Lo dimostrano sia la Borsa di Parigi rimasta al palo da inizio anno, sia soprattutto i tassi dei suoi OaT, che hanno smesso di comportarsi come titoli di Stato dell’Europa «core» e somigliano ora a quelli della «periferia».
La sovrapposizione con il BTp decennale è emblematica, perché l’andamento dei due bond mostra nel 2017 una correlazione quasi perfetta (0,93) che trova conferma anche nelle nude cifre sui rendimenti: 36 centesimi in più per l’Italia e 35 per la Francia. E altrettanto significative sono le oscillazioni che si notano all’interno di una singola giornata al succedersi di notizie sulla campagna elettorale per l’Eliseo, come quelle di ieri sul presunto accordo fra i due candidati nell’area della sinistra Benoit Hamon e Jean-Luc Melenchon.
Finora la tensione che si avverte ha evitato di sfociare nel panico soltanto perché ancora si è convinti dai sondaggi che danno il Fronte Nazionale comunque sconfitto al ballottaggio. Per tutti valgono le indicazioni di Citigroup quando sostiene che il divario di fiducia «si colmerà nel corso del 2017 nel momento in cui l’alto rischio politico non si materializzerà perché Marine Le Pen non diverrà presidente e gli investitori potranno tornare sui mercati europei». Vengono tuttavia i brividi al solo pensiero di quale sia stata l’affidabilità delle previsioni elettorali negli Usa e in Gran Bretagna lo scorso anno.
In questa situazione l’Italia si mantiene in una sorta di limbo: l’indice di incertezza politica si ferma a fine gennaio e non ingloba quindi gli sviluppi più recenti sul futuro del Partito Democratico, né le implicazioni di un’eventuale scissione. Ieri peraltro Credit Suisse bollava questo evento come «poco rilevante» in un contesto caratterizzato da un sistema elettorale proporzionale quale quello (al momento) in vigore, ma riteneva anche improbabile il ritorno alle urne in tempi rapidi e in concomitanza con le presidenziali francesi. A rimarcare forse che quel divario di fiducia a cui si accennava poco fa potrebbe purtroppo restare aperto ben più a lungo per noi.