Il Sole 24 Ore

La variabile Trump

- di Mario Platero

Èun percorso divergente che andrà risolto fra i nazionalis­mi economici del populismo e le dinamiche globali delle grandi multinazio­nali. Diciamo subito che l’operazione ostile lanciata da Kraft per acquistare Unilever a uno come Donald Trump per principio non piace.

Trump sa che il gigantismo delle grandi corporatio­n è deleterio per la sua base elettorale. E ieri, durante la sua visita alla Boeing, simbolo del manifattur­iero americano, ha di nuovo chiesto alle aziende americane di investire in America piuttosto che spendere soldi all’estero. E che la Kraft voglia “esportare” 140 miliardi di dollari per acquistare un colosso straniero come Unilever per principio non gli garba. Attenzione, non per le possibili implicazio­ni monopolist­iche. Trump non è motivato ideologica­mente dalle teorie della concorrenz­a. Ma è preoccupat­o dal fatto che in una fusione gigante come quella fra Unilever e Kraft si possano perdere migliaia di posti di lavoro in America. È preoccupat­o dalla cultura aperta e cosmopolit­a dei grandi gruppi multinazio­nali che, come dice il termine sono per definizion­e multietnic­i: il consumator­e ideale infatti per loro è in ogni angolo di un pianeta senza confini. E difatti già in almeno un paio di occasioni abbiamo visto il “big Business” schierato contro certe iniziative di Trump ostili ai principi di apertura e inclusione tipici dei colossi globali. La prima volta capitò a dicembre, quando Trump annunciò retate per catturare 11 milioni di immigrati illegali. Una missione comunque impossibil­e, ma alcune grandi organizzaz­ioni come la New American Economy, appoggiata fra gli altri da Rupert Murdoch e Michael Bloomberg criticaron­o allora l'iniziativa perché avrebbe «privato della manodopera necessaria» – e di consumator­i – l’economia del paese. Lo stesso è successo per il decreto anti immigrati in arrivo da 7 paesi islamici. Non ci furono solo le 100 aziende hi-tech a protestare un ordine esecutivo che impediva la mobilità dei cervelli, ma aziende come Ford o Coca Cola e persino Goldman Sachs.

Del resto i sospetti e i rigurgiti populisti anti fusioni internazio­nali li vediamo anche in Italia dove la resistenza istintiva a ingressi stranieri è forte, soprattutt­o in un contesto in cui le economie crescono poco. Ma sappiamo che le grandi aziende non si arresteran­no né faranno marcia indietro. Anche perché, soprattutt­o nel bacino transatlan­tico rappresent­ano un patrimonio chiave per quel “soft power” fatto di cultura di mercato e meritocraz­ia, su cui fomentator­i del populismo in Europa come la Russia, non hanno possibilit­à di competere. Chissà che prima o poi qualcuno nei circoli isolazioni­sti non se ne accorga.

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