La variabile Trump
Èun percorso divergente che andrà risolto fra i nazionalismi economici del populismo e le dinamiche globali delle grandi multinazionali. Diciamo subito che l’operazione ostile lanciata da Kraft per acquistare Unilever a uno come Donald Trump per principio non piace.
Trump sa che il gigantismo delle grandi corporation è deleterio per la sua base elettorale. E ieri, durante la sua visita alla Boeing, simbolo del manifatturiero americano, ha di nuovo chiesto alle aziende americane di investire in America piuttosto che spendere soldi all’estero. E che la Kraft voglia “esportare” 140 miliardi di dollari per acquistare un colosso straniero come Unilever per principio non gli garba. Attenzione, non per le possibili implicazioni monopolistiche. Trump non è motivato ideologicamente dalle teorie della concorrenza. Ma è preoccupato dal fatto che in una fusione gigante come quella fra Unilever e Kraft si possano perdere migliaia di posti di lavoro in America. È preoccupato dalla cultura aperta e cosmopolita dei grandi gruppi multinazionali che, come dice il termine sono per definizione multietnici: il consumatore ideale infatti per loro è in ogni angolo di un pianeta senza confini. E difatti già in almeno un paio di occasioni abbiamo visto il “big Business” schierato contro certe iniziative di Trump ostili ai principi di apertura e inclusione tipici dei colossi globali. La prima volta capitò a dicembre, quando Trump annunciò retate per catturare 11 milioni di immigrati illegali. Una missione comunque impossibile, ma alcune grandi organizzazioni come la New American Economy, appoggiata fra gli altri da Rupert Murdoch e Michael Bloomberg criticarono allora l'iniziativa perché avrebbe «privato della manodopera necessaria» – e di consumatori – l’economia del paese. Lo stesso è successo per il decreto anti immigrati in arrivo da 7 paesi islamici. Non ci furono solo le 100 aziende hi-tech a protestare un ordine esecutivo che impediva la mobilità dei cervelli, ma aziende come Ford o Coca Cola e persino Goldman Sachs.
Del resto i sospetti e i rigurgiti populisti anti fusioni internazionali li vediamo anche in Italia dove la resistenza istintiva a ingressi stranieri è forte, soprattutto in un contesto in cui le economie crescono poco. Ma sappiamo che le grandi aziende non si arresteranno né faranno marcia indietro. Anche perché, soprattutto nel bacino transatlantico rappresentano un patrimonio chiave per quel “soft power” fatto di cultura di mercato e meritocrazia, su cui fomentatori del populismo in Europa come la Russia, non hanno possibilità di competere. Chissà che prima o poi qualcuno nei circoli isolazionisti non se ne accorga.