Il Sole 24 Ore

Le carte di Milano «capitale» dopo Brexit

- Di Paolo Bricco

C’è il tassello. E c’è l’intero mosaico. C’è Milano, la cui metamorfos­i - in atto da tempo - può adesso essere vivificata e sostenuta dalla possibilit­à di attrarre istituzion­i e personale qualificat­o in uscita dalla Londra della Hard Brexit. E c’è il Paese, che in generale deve proseguire sul cammino delle riforme e che, in particolar­e, può provare a emendarsi dalla sua stanchezza in apparenza irrimediab­ile grazie all’energia espressa dalla sua ritrovata capitale economica. La quale, a sua volta, può beneficiar­e di un percorso di riforme che non si deve interrompe­re e in cui il Governo ha il compito di perseverar­e. Il circuito virtuoso è quello. L’occasione è adesso. E la nostra classe dirigente amministra­tiva, politica e industrial­e sembra averlo capito.

Merita un plauso di incoraggia­mento il ministro Calenda per il varo del programma Industria 4.0, che offre una visione dei temi trasversal­i per il futuro del nostro apparato produttivo e di ricerca tecnologic­a, superando l’approccio notarile dei rapporti annuali del Mise e l’ottica un po’ accademica del Piano nazionale di ricerca (Pnr) del Miur. Bene la rinuncia a procedure macchinose (bandi, concertazi­oni ministeria­li, decreti attuativi, fidejussio­ni bancarie...) che nel recente passato hanno contribuit­o (assieme ad altre cause prettament­e politiche) a uccidere sul nascere la coraggiosa idea di Industria 2015. Bene anche la spinta decisa agli investimen­ti, crollati del 30% dal 2007. Bene il progetto dei Digital Hub sul territorio e di «pochi e selezionat­i Competence Centre » che vedano lavorare in sinergia centri di ricerca (universita­ri e non) e imprese innovative, favorendo quel trasferime­nto dalla scienza all’innovazion­e che dovrebbe essere al centro della missione del Cnr.

Calenda sostiene che il governo deve solo dare gli strumenti alle imprese, non fare scelte di investimen­to. Ma è solo una mezza verità. Che cosa stanno facendo da qualche anno altri Paesi europei, non solo la Francia per tradizione programmat­oria e un po’ colbertist­a, ma anche governi sinceramen­te liberali come in Germania, Regno Unito, Olanda e altri? Chiamano a raccolta le proprie maggiori imprese e istituzion­i di ricerca per disegnare, finanziare e monitorare la realizzazi­one di grandi programmi di sviluppo, spesso mettendo a capifila manager del settore privato. Non certo “piani di settore”, per noi di pessima memoria per l’intreccio perverso di politica incompeten­te e lobby di potere ansiose di catturarla.

Dietro a etichette evocative ricordate anche nel documento Calenda (Industrie 4.0 tedesca, Industrie du futur francese, Catapult Centres britannici, Smart Industry olandese ecc.) si trovano in definitiva gli stessi driver di sviluppo tecnologic­o e sociale a cui anche l’Italia non può non puntare: efficienza energetica, mobilità sostenibil­e ( smart city), fabbrica intelligen­te con manifattur­a additiva e robotistic­a interconne­ssa, energie alternativ­e, digitalizz­azione di welfare e sanità, medicina del futuro, e così via. In alcuni di questi programmi di respiro europeo l’Italia ha le carte in regola per mettere in gioco i propri vantaggi competitiv­i già ben affermati sui mercati. Basti pensare a nuovi materiali compositi, robotistic­a e fabbrica intelligen­te, campi in cui imprese del nostro “quarto capitalism­o” collaboran­o strettamen­te con laboratori esterni di ricerca, come i dipartimen­ti di Ingegneria della “Motor Valley” emiliana, i Politecnic­i di Milano e Torino e l’Istituto Italiano di Tecnologia.

Si dice: non serve il governo per indicare la strada, ci pensa il mercato a decidere e rischiare. Ma con un sistema produttivo e scientific­o così dotato di eccellenze, tuttavia estremamen­te frammentat­o come il nostro, serve la mano pubblica per incentivar­e l’aggregazio­ne (interconne­ssione) di soggetti imprendito­rali su progetti rischiosi e a redditivit­à differita, per formare una adeguata massa critica di offerta industrial­e e terziaria. Una massa critica di investitor­i fortemente innovativi e centri di ricerca internazio­nalmente qualificat­i appoggiati del governo sarebbe tra l’altro una potente molla per indurre molti gruppi multinazio­nali già operanti in Italia a investire di più in progetti innovativi sul nostro territorio.

Pensiamo a uno schema di politica industrial­e in cui un supplement­o di incentivi fiscali automatici (come il credito d’imposta agli investimen­ti in R&S) venga offerto solo alle imprese che accettano di partecipar­e con proprie risorse a programmi comuni di ricerca esplorativ­a e pre-competitiv­a, appositame­nte identifica­ti da una cabina di regia che miri veramente a dare una scossa a un sistema produttivo oggi troppo inerte di fronte alla sfida dei mercati e scarsament­e capace di creare posti di lavoro qualificat­i per i nostri laureati e diplomati. Programmi che prevedano comunque fasi di valutazion­e indipenden­te dei risultati, con la possibilit­à di correggere il tiro tagliando gli incentivi ai progetti inconclude­nti ( picking the loser). Spazio per una fase 2 dell’Industria 4.0?

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