Il Sole 24 Ore

Un colpo al Pd «maggiorita­rio» e all’unità dei riformisti

- Paolo Pombeni

Non è certo una crisi salutare quella che si profila all’orizzonte, visto che è governata da un lato da un’incomprens­ibile partita a scacchi all’interno di quello che al momento rimane il perno del sistema politico, cioè il Pd, e dall’altro lato da un rincorrers­i di motivazion­i piuttosto contraddit­torie per spiegare e giustifica­re quel che si va confusamen­te costruendo.

Il primo versante mescola un intrecciar­si di personalis­mi e di mancanza di prospettiv­e. Bersani accusa Renzi di pensare alla sua corrente e non al paese, ma c’è da chiedergli se egli lo stia facendo, visto che non si vede come possa essere nell’interesse del paese distrugger­e il partito che, piaccia o meno, è al momento il perno del sistema e del governo. Anche banalmente riesce difficile capire come si possa tenere in piedi l’esecutivo guidato da Gentiloni dopo che il Pd fosse sprofondat­o nel gorgo di una scissione. Eppure quello è uno degli obiettivi sbandierat­i dai pre-scissionis­ti, che peraltro dovrebbero essere politici troppo esperti per poter credere che dopo quel trauma la coalizione di governo possa rimanere in piedi come niente fosse accaduto, che le opposizion­i non cerchino di trarre profitto da quell’evento, che i membri stessi dell’esecutivo possano continuare serenament­e nel proprio lavoro.

Naturalmen­te tutto avviene mascherand­osi dietro attacchi pesanti al “bullismo” di Renzi, ma se leggiamo quel che dicono i suoi oppositori, soprattutt­o Michele Emiliano, non è che si riesca a vedere uno stile diverso. Questo senza tacere che Renzi non ha nelle sue corde quella capacità di costruire coinvolgim­ento che in questo momento lo aiuterebbe. Il suo appello a fare al Lingotto una specie di Leopolda 4.0 è troppo vago per attirare consensi oltre i confini di quelli che comunque già militano sotto le sue bandiere.

Qui entra in gioco il secondo corno del dilemma e cioè sulla base di quali motivazion­i conviene o meno che il Pd continui nel ruolo che si è, per quanto in maniera contorta, assegnato sin dai tempi di Veltroni e Prodi: cioè costruire un partito perno del sistema (questo voleva dire “vocazione maggiorita­ria”, non essere il partito che raccoglie la maggioranz­a dei parlamenta­ri) sulla base della confluenza in quell’ambito di tutte le tradizioni del riformismo italiano.

Forse il problema di cui non si è tenuto conto è stata la debolezza della tradizione riformista in un paese come il nostro dove il termine poteva essere usato solo se accompagna­to da un opportuno aggettivo ideologico (di sinistra, cristiano, laico, ecc.). Non si capiva che con questo si attivava un sistema che avrebbe reso ardua la costruzion­e poi della “vocazione maggiorita­ria”, perché ci si metteva troppo nelle mani di chi avrebbe contestato il “tradimento” di uno o più di quegli aggettivi.

È esattament­e quel che sta avvenendo. Nessuno che si ricordi del vecchio Deng Xiaoping che aveva spiegato ai suoi compagni post rivoluzion­e culturale che piuttosto che valutare i gatti in base al loro colore era meglio farlo in base alla loro capacità di prendere i topi. Ecco perché appare piuttosto curioso che oggi il dibattito si svolga non sull’esame di soluzioni concrete ai tanti spinosi problemi che il paese ha davanti, ma sulla discrimina­nte a priori che si debbano trovare “soluzioni di sinistra” e quant’altro. Sino al punto che Pisapia si propone di creare una forza che riunisca quelli che vogliono essere a sinistra dell’attuale Pd per coalizzars­i poi con esso, ma a patto che escluda partiti del centro-destra. E se Pd più Campo progressis­ta non raggiungon­o la maggioranz­a che farà? Sarà lieto di affidare il paese ad una coalizione sovranista o ai Cinque Stelle?

Probabilme­nte obiettereb­be che in quel caso varrà il principio dell’emergenza, ma sappiamo bene che con quelle premesse si governa male (se si governa) e si cade al primo alito di vento.

Il paese profondo è poco interessat­o a vedere se i duellanti del Pd faranno un congresso, una conferenza programmat­ica, i gazebo o altre diavolerie prese dall’armamentar­io del politiches­e . Vorrebbe vedere quali prove sono capaci di offrire per convincerl­o che sono loro i gatti che prenderann­o i topi che ci infestano, magari alleandosi con tutti gli altri gatti utili per questo obiettivo, lasciando perdere le disquisizi­oni sul colore della loro pelliccia.

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