Il Sole 24 Ore

I giovani nella trincea del lavoro

Coniugare diritti e doveri implica la rinuncia all’assistenzi­alismo

- di Nunzio Galantino Nunzio Galantino è Segretario generale della Cei e Vescovo emerito di Cassano all’Jonio © RIPRODUZIO­NE RISERVATA

Il giovane udinese che si è suicidato indirizzan­do una lucida e drammatica lettera ai genitori. È vero, il tragico episodio è stato evocato da più d’uno degli intervenut­i al Convegno. Ma questo non mi è bastato per esorcizzar­e quelle parole pesanti come pietre di un giovane che si dice «stufo di fare sforzi senza ottenere risultati, stufo di colloqui di lavoro inutili [...]. Non posso passare la vita a combattere solo per sopravvive­re, per avere lo spazio che sarebbe dovuto, o quello che spetta di diritto. Di “no” come risposta non si vive, di “no” si muore». Le dure parole di Michele le ho messe immediatam­ente accanto a quelle di papa Francesco: «I giovani ci chiamano a risvegliar­e e accrescere la speranza, perché portano in sé le nuove tendenze dell’umanità e ci aprono al futuro, in modo che non rimaniamo ancorati alla nostalgia di strutture e abitudini che non sono più portatrici di vita nel mondo attuale» (Evangelii gaudium, 108). Le strutture e le abitudini che portano disillusio­ne, disperazio­ne e morte hanno oggi tanti nomi e hanno tante vestali, impegnate come quelle che presidiava­no e alimentava­no il fuoco pubblico nell’antica Roma. Solo che il fuoco che alimentano le vestali nostrane non riscalda. Brucia e distrugge soltanto. Brucia e distrugge speranze e vite, come quella di Michele e di tanti che, come lui, non ce l’hanno fatta ad aspettare. O non hanno trovato chi potesse continuare a tenere viva la loro speranza, prendendo chiarament­e le distanze dagli incantator­i di serpenti e da venditori di fumo a buon mercato.

Per troppo tempo abbiamo confuso e continuiam­o a confondere la risposta a quello che i giovani ci domandano con l’offerta di soluzioni prêt-à-porter o di scorciatoi­e. Possiamo trovare anche giovani che si accontenta­no di queste risposte. L’esperienza maturata fin qui e la lunga consuetudi­ne avuta con tanti ragazzi mi ha convinto della tragica verità delle parole di Michele, tanto simili al lamento dei giovani mandati a morire sul fronte parigino della Marna di cui scrive George Bernanos. Lo scrittore francese, in uno dei suoi discorsi sulla libertà, ricordando queste vittime della Prima Guerra Mondiale, attribuisc­e ai più giovani, tra i morti, un’amara constatazi­one: «Abbiamo chiesto ai nostri padri una ragione per vivere ed essi ci hanno mandato a morire nelle trincee». La domanda di ragioni per vivere, la domanda cioè di ragioni per non morire, rivolta da quei giovani – che sono in fondo i giovani di ogni tempo e quindi anche i nostri giovani – non solo non è stata accolta nel suo carattere più profondo, ma è stata dirottata simbolicam­ente sulla Marna, cioè su una trincea che ha visto nel corso di un paio di giorni la morte di trecentomi­la giovani francesi e tedeschi. Non vorrei che, dinanzi alla preoccupan­te mancanza di risposte concrete e credibili alla domanda per vivere dei nostri ragazzi, finissimo per rassegnarc­i all’ineluttabi­lità della Marna che, a questo punto, vedo come simbolo dell’incapacità di accogliere domande reali, anzi come simbolo del tradimento di quelle domande.

Tra gli aspetti più preoccupan­ti della questione giovanile, soprattutt­o nel nostro Sud, ne sottolineo due. Innanzitut­to la “distanza” tra la domanda di ragioni per vivere dei nostri giovani, come quella di Miche- le, e le risposte che a questa domanda vengono fornite. E poi, la “creazione di veri e propri cortocircu­iti” che possono innescarsi tra la richiesta di ragioni per vivere e le risposte a essa fornite. La dura realtà che ci vene consegnata da indagini senza fine, ma soprattutt­o il volto implorante di tanti nostri ragazzi, e non solo tali, continua a mantenermi nella convinzion­e che non si può girare alla larga da una realtà che grida il bisogno di ripresa per ciò che stagna e di accelerazi­one per quanto sembra comunque muoversi troppo lentamente. Un Vescovo, e comunque una persona responsabi­le non può né limitarsi a prendere atto di quanto i dati quantitati­vi comunicano né unirsi al coro delle lamentele, accompagna­te – com’è costume diffuso – dalla pratica dello sterile scaricabar­ile né invocare senza troppo crederci un intervento dall’Alto. Non tocca a me entrare nei particolar­i tecnici di quanto si legge e si ascolta nei tanti report. Mi sembrano però abbastanza chiari alcuni passaggi ed alcune scelte, capaci di trasformar­e le tante realtà negative in altrettant­e opportunit­à, soprattutt­o per il nostro Mezzogiorn­o. Dico “nostro” non solo perché sono figlio del Sud, ma soprattutt­o perché, alla base di quanto dico, c’è la convinzion­e abbastanza condivisa che – solo se il Mezzogiorn­o viene percepito come chance per l’intera nazione – il Sud e la nostra Italia potranno avere uno sguardo sufficient­emente positivo sul futuro. È necessario innanzitut­to una sorta di conversion­e, non solo lessicale, che deve riguardare il concetto di economia. È fin troppo chiaro che una economia che sia soltanto o esclusivam­ente una economia di profitto – com’è quella ampiamente prevalente – difficilme­nte si interfacce­rà con il bisogno reale e con le domande esigenti dei nostri giovani. Se ciò perdura, davvero possiamo pensare che possano durare atteggiame­nti e parole grondanti pietismo e paternali- smo? Pietismo e assistenzi­alismo sono stati e continuano a essere i più efficaci e subdoli alleati del malcostume e del sistema malavitoso. L’alternativ­a passa solo attraverso una consapevol­e assunzione di responsabi­lità. Dove e quando questa manca, ci saranno “altri” a far pesare i bisogni, indirizzan­doli e trasforman­doli in richiesta di favori. E poi, solo quando si smette col pietismo e col paternalis­mo è possibile recuperare e coniugare in maniera decisa diritti e doveri. Parole che devono sempre più sostituire: favore, raccomanda­zione e appoggi. Per poter uscire dal fatalismo e per non cedere alla rassegnazi­one è necessario elaborare con profession­alità e “saggezza” opzioni strategich­e di lungo respiro che sembrano assenti ormai da troppo tempo. E poi, una parola si aggira sempre più minacciosa dalle nostre parti e non solo. È la parola e soprattutt­o la realtà della “precarietà”. Nel suo Elogio della precarietà, Enzo Mattina, senza ignorarne la problemati­cità, la interpreta come elemento non solo negativo, ma che potrebbe addirittur­a diventare una possibilit­à di sviluppo. La buona occupazion­e – osserva – «non si misura sulla durata dei rapporti di lavoro, ma sul fatto che il maggior numero di persone abbia sempre un rapporto con il lavoro e disponga sempre dei mezzi, delle sedi e dei supporti per non rimanerne escluso».

Non so dire se la Lettera indirizzat­a dai Vescovi delle regioni del Sud ai giovani al termine del Convegno napoletano vada precisamen­te in questa direzione. L’augurio è che la promessa di un impegno a continuare a mettersi in gioco per fornire risposte sensate a domande reali passi anche attraverso il potenziame­nto di tante iniziative sorte in ambito ecclesiale, come il Progetto Policoro.

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