Protezionismo, l’errore di Trump
Le improvvide ventate di protezionismo che emanano dall’America di Trump fanno leva, in ultima analisi, sulle differenze nel costo del lavoro fra i diversi Paesi. La globalizzazione ha permesso alle imprese di spostare le produzioni nei Paesi a basso costo, in ciò aiutate anche dai prodigi della telematica.
Vale la pena, allora, di gettare uno sguardo sui livelli più recenti del costo del lavoro orario nel settore manifatturiero dei diversi Paesi. Queste statistiche vengono ora pubblicate dal Conference Board. Il grafico mostra i dati, in dollari Usa, al 2015. Come si vede, le convenienze delle delocalizzazioni continuano a esistere. Forse, sono minori di prima: per esempio, nel 2002 il costo orario in Cina era solo il 2,2% del costo negli Usa, e ora è pari all’11,3 per cento. Ma la differenza è tale da non scalfire le convenienze.
Tanto più che l’India, con un costo del lavoro che è molto al di sotto di quello cinese, avanza con il suo nuovo slogan: “Make in India”. E anche l’Europa ha i suoi “cinesi”: basti vedere nel grafico i costi del lavoro in Polonia e Turchia, mentre il confronto fra Usa, Messico e Brasile è impietoso.
Basteranno le punzecchiature protezionistiche di Trump a compensare i potenti stimoli che vengono da queste differenze ancora abissali? Qualcuno ha detto che opporsi alla globalizzazione è come opporsi alla forza di gravità. Ed è vero. Ci sarà — c’è già stato, e non solo in America — qualche caso di “rilocalizzazione”, quando le imprese delocalizzate vengono rimpatriate per varie ragioni. E ci sarà qualche rallentamento nella diaspora delle delocalizzazioni. Ma niente potrà fermare la redistribuzione internazionale del lavoro.