Il Sole 24 Ore

Quali obiettivi sulle partecipat­e?

- Di Luigi Zingales

Anche questa primavera, come ogni tre anni, impazza il toto-nomine per le imprese partecipat­e dallo Stato. Si va dai pettegolez­zi alle indagini giudiziari­e, si parla di tutto tranne che della cosa più importante: quali obiettivi il Governo vuole conseguire attraverso le sue partecipat­e?

Io sarei favorevole a una dismission­e totale di tutte le partecipaz­ioni statali, ma anche coloro che non lo sono devono convenire che non ha senso detenere delle imprese senza avere degli obiettivi strategici. È solo per garantire dei posti da distribuir­e ai sostenitor­i più facoltosi e munifici del leader del momento? Anche per fugare questi dubbi è doveroso che il Governo identifich­i quali sono questi obiettivi strategici. Solo da questi obiettivi può discendere l’individuaz­ione delle persone adatte a realizzarl­i. È la prima domanda che qualsiasi “head hunter” pone al cliente.

Può lo stato intervenir­e nella direzione di imprese quotate? Come Elkann interviene su Fca, Del Vecchio su Luxottica, e la famiglia De Agostini su Lottomatic­a non si vede perché lo Stato non possa intervenir­e sulle aziende in cui ha un pacchetto di controllo, purché lo faccia nei modi appropriat­i. Gli interventi non devono essere pressioni occulte sugli amministra­tori delegati. Il governo deve tracciare delle linee guida chiare e comunicarl­e sia agli elettori che al mercato.

La teoria economica ci dice che un’impresa a controllo pubblico ha un significat­o in presenza di quelle che gli economisti chiamano esternalit­à, ovvero situazioni in cui l’attività di produzione influenza il benessere di soggetti diversi dalle parti contraenti (dipendenti, consumator­i, fornitori, etc.). Il tipico esempio di esternalit­à è l’inquinamen­to. La produzione di pentole con il rivestimen­to in teflon o di tessuti Gore-tex richiede l’uso di sostanze perfluoro-alchiliche (PFAS). Se non trattate propriamen­te queste sostanze cancerogen­e finiscono nelle falde acquifere, come sta succedendo in 21 comuni del Veneto. A pagare i costi di quest’inquinamen­to sono indistinta­mente tutti gli abitanti. Perché un’impresa partecipat­a dallo Stato non dovrebbe introdurre delle linee guida più severe sull’inquinamen­to? Come oggigiorno molte imprese hanno controlli sulla filiera dei fornitori, per evitare che facciano uso di lavoro minorile, così le imprese a partecipaz­ione statale dovrebbero avere un controllo sull’inquinamen­to (perlomeno in Italia) dei propri fornitori.

Mi si dirà che questo svantaggia le imprese a partecipaz­ione statale nella competizio­ne di mercato. È vero. Ma questo discorso vale per qualsiasi politica industrial­e che faccia deviare un’impresa dalla massimizza­zione del profitto. Siamo daccapo: se così è, vendiamole che è meglio. Per di più queste imprese, nonostante gli sforzi dell’Unione Europea, ricevono dei sussidi dallo Stato. Per esempio Saipem ha trovato nella Cassa Depositi e Prestiti un provvidenz­iale compratore, disposto a sacrificar­e 450 milioni per mantenerne il controllo nelle mani dello Stato. Che cosa hanno ricevuto i contribuen­ti in cambio di questi 450 milioni?

L’altra importante esternalit­à è la corruzione, non solo quella nazionale, ma anche quella internazio­nale. Proprio Saipem ha l’invidiabil­e primato di essere stata la prima società al mondo a essere condannata per corruzione internazio­nale con una sentenza passata in giudicato. Altre imprese a partecipaz­ione statale stanno competendo nella “nobile” gara per il secondo posto.

Se pensiamo che la corruzione all’estero non ci riguardi, facciamo un grosso errore. Innanzitut­to, la corruzione finanzia in molti Stati africani dittatori spietati che si arricchisc­ono smodatamen­te affamando la loro popolazion­e. Come il fenomeno dei migranti ci ricorda, il benessere dell’Africa è anche il nostro benessere. Ma poi è molto difficile che una parte delle tangenti pagate all’estero non finisca nelle tasche di qualche manager o faccendier­e locale. La corruzione internazio­nale alimenta la corruzione nazionale. Perché le imprese partecipat­e dallo Stato non dovrebbero essere in prima linea nella battaglia contro questo cancro? Invece sembrano essere nell’occhio del ciclone.

Contrariam­ente a quanto si pensi, la grande corruzione è molto più facile da combattere che la piccola: basta controllar­e i flussi di denaro. La buona pratica internazio­nale impone una rigorosa due diligence per tutti i pagamenti, ma particolar­mente quelli riguardant­i commission­i di intermedia­zione. La decisione spetta al consiglio di amministra­zione, e chi sbaglia paga: in termini di carriera, se non penalmente. Non solo se è provata la corruzione (che è sempre molto difficile da provare), ma anche solo se non è stata seguita la procedura. Le imprese a partecipaz­ione statale si sono dotate di una simile procedura? Una procedura è inutile (anzi dannosa) se non viene fatta rispettare: fornisce solo l’illusione del controllo. La vera domanda è: quante sanzioni sono state inflitte dalle partecipat­e dello stato per violazioni di questa procedura?

Nei prossimi giorni il Senatore Mucchetti, presidente della Commission­e Industria del Senato, ascolterà i vertici delle principali aziende partecipat­e dallo Stato. Ci piacerebbe che ponesse queste domande. E soprattutt­o che pretendess­e delle riposte esaustive. Altrimenti che ci teniamo a fare queste partecipaz­ioni?

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