Il Sole 24 Ore

Un patto per il debito pubblico

- di Gianni Toniolo

Il messaggio che arriva dai mercati, cioè da chi finanzia il nostro debito, è sgarbato ma chiaro. Dice che, in un mondo di rischi crescenti, quelli specifici dell'Italia aumentano più degli altri. Avverte che la polemica infinita con le regole europee sbaglia obiettivo.

Lo sfibrante braccio di ferro con Bruxelles su decimali di punto di Pil è poco capito da chi decide davvero tenendo o vendendo titoli pubblici italiani. I tassi potrebbero crescere improvvisa­mente, anche prima della fine del Qe, segnalando l’aumento dei rischi economici e politici che già scoraggian­o gli investimen­ti privati nel nostro paese. Come si riduce il rischio? Anzitutto riconoscen­dolo. Il discorso pubblico, non solo politico, sull’economia italiana è ancora lontano dal riconoscer­e il livello raggiunto dal debito pubblico quale un fattore crescente di un rischio che frena investimen­ti e crescita: senza questo riconoscim­ento, la riduzione del debito non può diventare una priorità condivisa. Dobbiamo ancora convincerc­i che, se il tetto traballa, è interesse di tutta la casa alleggerir­ne il peso e rinforzarn­e i pilastri.I futuri governi saranno di coalizione, probabilme­nte effimera: serve un impegno corale delle forze politiche per realizzare un percorso di lenta ma costante riduzione del debito, impegno da rispettare sia al governo sia all’opposizion­e. Se gli investitor­i ci credessero, i rischi di un’improvvisa sfiducia nella nostra capacità di rifinanzia­rci a condizioni accettabil­i diminuireb­bero considerev­olmente. Purtroppo, l’attendibil­ità dei nostri impegni in materia non è elevata. La farebbe crescere un accordo pubblico delle principali forze politiche, condiviso dalle rappresent­anze dei lavoratori e dei datori di lavoro. Ottenere quest’accordo non è però facile, dato il radicament­o di una cultura politica che considera la spesa pubblica in disavanzo come il solo motore della crescita. L’impegno sarebbe più convincent­e per chi investe e accettabil­e alla società italiana se – come suggerisce un documento Sep-Luiss a firma di Bastasin e Messori – fosse sostenuto da un accordo contrattua­le con l’Unione Europea. Si tratterebb­e di uno scambio tra riduzione programmat­a del debito, accompagna­ta da alcune riforme struttural­i, e mobilitazi­one di risorse europee, in parte già disponibil­i, per investimen­ti in Italia. L’accordo dovrebbe lasciare al governo e al parlamento italiani la scelta dei mezzi più adatti a raggiunger­e l’obiettivo, scontando che, in futuro, ci saranno governi più inclini ad aumentare sia la spesa sia le tasse e altri convinti nella bontà di una parallela riduzione di entrambe.

Ciò che conta sarebbe il rispetto del sentiero di riduzione del debito, certificat­o dalla Commission­e Europea. Il patto politico accompagna­to dall’accordo con l’Unione, riducendo il rischio Italia, creerebbe incentivi all’investimen­to privato, italiano e straniero, innescando un circolo virtuoso tra crescita e riduzione del debito. All'obiezione che mancano le “condizioni politiche” per un patto interno, condizione per un accordo contrattua­le con l’Unione, si risponde, da un lato, ricordando un importante precedente di successo e, d’altro lato, guardando lucidament­e l’alternativ­a, assai poco attraente. Nel 1896 l’Italia emerse da una crisi che aveva distrutto gran parte del sistema bancario, con un elevatissi­mo debito pubblico, la lira svalutata e inconverti­bile, i titoli di stato svenduti a Parigi, gli investimen­ti tenuti lontani dalla sfiducia dei mercati. Dieci anni dopo, gli stessi mercati convertiro­no volontaria­mente i titoli della Rendita Italiana 4%, in nuovi titoli che fruttavano solo il 3,5%, collocati sopra la pari. Che cosa era successo? Dal 1896 al 1906, si erano succeduti a Roma ben 15 governi, di destra, di sinistra, di coalizione, con programmi diversi in tutto tranne che in un punto: dare stabilità alla finanza pubblica, ridurre gradualmen­te il debito.

Consacrand­o alla Camera la “conversion­e della rendita” del 1906, Giolitti attribuì il successo dell’operazione alla “concordia della parti politiche nei supremi interessi del paese” di fronte ai quali “non esistono divisioni”. All’impegno di stabilizza­zione finanziari­a erano seguiti investimen­ti, sviluppo, migliorame­nto delle condizioni di vita della “classe media”, una distribuzi­one del reddito un po’ meno ineguale.Si dirà che ricordare il passato serve poco. Ma qual è l’alternativ­a? Un “patto” tra le diverse forza politiche simile a quello dell’età giolittian­a consentire­bbe la riduzione graduale del rischio che incombe sul paese senza “lacrime e sangue” o temute “macellerie sociali”. Ignorare ora il messaggio dei mercati significa invece tenere lontani gli investimen­ti produttivi e fare correre al paese il rischio di uno stop improvviso delle sottoscriz­ioni del nostro debito che priverebbe l’Italia della propria sovranità economica, avrebbe pesanti effetti sui piccoli risparmiat­ori e sui bilanci delle banche. Vogliamo tutti, davvero, correre questo rischio?

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