Un patto per il debito pubblico
Il messaggio che arriva dai mercati, cioè da chi finanzia il nostro debito, è sgarbato ma chiaro. Dice che, in un mondo di rischi crescenti, quelli specifici dell'Italia aumentano più degli altri. Avverte che la polemica infinita con le regole europee sbaglia obiettivo.
Lo sfibrante braccio di ferro con Bruxelles su decimali di punto di Pil è poco capito da chi decide davvero tenendo o vendendo titoli pubblici italiani. I tassi potrebbero crescere improvvisamente, anche prima della fine del Qe, segnalando l’aumento dei rischi economici e politici che già scoraggiano gli investimenti privati nel nostro paese. Come si riduce il rischio? Anzitutto riconoscendolo. Il discorso pubblico, non solo politico, sull’economia italiana è ancora lontano dal riconoscere il livello raggiunto dal debito pubblico quale un fattore crescente di un rischio che frena investimenti e crescita: senza questo riconoscimento, la riduzione del debito non può diventare una priorità condivisa. Dobbiamo ancora convincerci che, se il tetto traballa, è interesse di tutta la casa alleggerirne il peso e rinforzarne i pilastri.I futuri governi saranno di coalizione, probabilmente effimera: serve un impegno corale delle forze politiche per realizzare un percorso di lenta ma costante riduzione del debito, impegno da rispettare sia al governo sia all’opposizione. Se gli investitori ci credessero, i rischi di un’improvvisa sfiducia nella nostra capacità di rifinanziarci a condizioni accettabili diminuirebbero considerevolmente. Purtroppo, l’attendibilità dei nostri impegni in materia non è elevata. La farebbe crescere un accordo pubblico delle principali forze politiche, condiviso dalle rappresentanze dei lavoratori e dei datori di lavoro. Ottenere quest’accordo non è però facile, dato il radicamento di una cultura politica che considera la spesa pubblica in disavanzo come il solo motore della crescita. L’impegno sarebbe più convincente per chi investe e accettabile alla società italiana se – come suggerisce un documento Sep-Luiss a firma di Bastasin e Messori – fosse sostenuto da un accordo contrattuale con l’Unione Europea. Si tratterebbe di uno scambio tra riduzione programmata del debito, accompagnata da alcune riforme strutturali, e mobilitazione di risorse europee, in parte già disponibili, per investimenti in Italia. L’accordo dovrebbe lasciare al governo e al parlamento italiani la scelta dei mezzi più adatti a raggiungere l’obiettivo, scontando che, in futuro, ci saranno governi più inclini ad aumentare sia la spesa sia le tasse e altri convinti nella bontà di una parallela riduzione di entrambe.
Ciò che conta sarebbe il rispetto del sentiero di riduzione del debito, certificato dalla Commissione Europea. Il patto politico accompagnato dall’accordo con l’Unione, riducendo il rischio Italia, creerebbe incentivi all’investimento privato, italiano e straniero, innescando un circolo virtuoso tra crescita e riduzione del debito. All'obiezione che mancano le “condizioni politiche” per un patto interno, condizione per un accordo contrattuale con l’Unione, si risponde, da un lato, ricordando un importante precedente di successo e, d’altro lato, guardando lucidamente l’alternativa, assai poco attraente. Nel 1896 l’Italia emerse da una crisi che aveva distrutto gran parte del sistema bancario, con un elevatissimo debito pubblico, la lira svalutata e inconvertibile, i titoli di stato svenduti a Parigi, gli investimenti tenuti lontani dalla sfiducia dei mercati. Dieci anni dopo, gli stessi mercati convertirono volontariamente i titoli della Rendita Italiana 4%, in nuovi titoli che fruttavano solo il 3,5%, collocati sopra la pari. Che cosa era successo? Dal 1896 al 1906, si erano succeduti a Roma ben 15 governi, di destra, di sinistra, di coalizione, con programmi diversi in tutto tranne che in un punto: dare stabilità alla finanza pubblica, ridurre gradualmente il debito.
Consacrando alla Camera la “conversione della rendita” del 1906, Giolitti attribuì il successo dell’operazione alla “concordia della parti politiche nei supremi interessi del paese” di fronte ai quali “non esistono divisioni”. All’impegno di stabilizzazione finanziaria erano seguiti investimenti, sviluppo, miglioramento delle condizioni di vita della “classe media”, una distribuzione del reddito un po’ meno ineguale.Si dirà che ricordare il passato serve poco. Ma qual è l’alternativa? Un “patto” tra le diverse forza politiche simile a quello dell’età giolittiana consentirebbe la riduzione graduale del rischio che incombe sul paese senza “lacrime e sangue” o temute “macellerie sociali”. Ignorare ora il messaggio dei mercati significa invece tenere lontani gli investimenti produttivi e fare correre al paese il rischio di uno stop improvviso delle sottoscrizioni del nostro debito che priverebbe l’Italia della propria sovranità economica, avrebbe pesanti effetti sui piccoli risparmiatori e sui bilanci delle banche. Vogliamo tutti, davvero, correre questo rischio?