Il Sole 24 Ore

Flessibili­tà Ue e bassi interessi ma il debito sale Dopo 9 anni, l’imperativo è avviare la riduzione

DAL TAGLIO DI 4 PUNTI NEL SOLO 1997 FINO AL RAGGIUNGIM­ENTO DI QUOTA 100%, POI LA RISALITA DAL 2008 CON L’AGGRAVARSI DELLA RECESSIONE

- Di Dino Pesole

C’è la garanzia dell’avanzo primario, quest’anno attorno al 2% del Pil. E tra i fattori che garantisco­no la sostenibil­ità del debito pubblico compare l’elevato livello del risparmio privato. In più, dal 2012 al 2016, la spesa per interessi si è ridotta di 17 miliardi, e la Commission­e Ue ha concesso flessibili­tà per il 2015-2016 per 19 miliardi, cui va ad aggiungers­i la tranche prevista nella manovra 2017, in parte ancora sub iudice. Da qui, l’obiezione, che poi è il vero retropensi­ero che sta dietro i documenti, le lettere, gli atti ufficiali e i contatti informali tra Roma e Bruxelles: perché, nonostante il combinato di meno interessi e più flessibili­tà il debito continua a crescere? In realtà – replica il ministero dell’Economia – il debito si è stabilizza­to. Ora l’urgenza primaria e assoluta è avviarne da quest’anno il percorso di graduale discesa. Non vi è alternativ­a, per questo e per tutti i governi che verranno, di qualsivogl­ia colore e composizio­ne politica. Lo ribadirà tra breve il Rapporto della Commission­e Ue: la persistenz­a di un debito così elevato (ora al 132,8%) espone l’economia italiana a repentini e gravissimi rischi, minacciand­o in tal modo la stabilità dell’intera eurozona. Un problema non da poco per la prossima legge di bilancio, soprattutt­o se verrà meno lo “scudo” della Bce. Il quadro macroecono­mico dovrebbe essere rivisto, a partire proprio dalla fondamenta­le voce della spesa per interessi, che è prevista attestarsi quest’anno a quota 63,8 miliardi (il 3,7% del Pil), rispetto ai 66,4 miliardi del 2016 (4% del Pil), e al 3,6% nel 2018. Certo, dietro l’incremento del debito tra il 2011 e il 2013 c’è il tributo pagato alla più grave recessione del dopoguerra. La lezione del recente passato insegna che il debito va ridotto nei “good times”, non certo quando l’economia arranca. Dal 1997, quando grazie alla riduzione in un solo anno di quattro punti di deficit (dal 6,7 al 2,7%) l’Italia entrò nel gruppo di testa dei paesi aderenti all’euro, il debito sembrava in effetti avviato verso una curva discendent­e. Eravamo a quota 113,8% del Pil, e alla fine del decennio successivo si riuscì a lambire quota 100 per cento. Poi la brusca inversione di tendenza. Dal 2008, il debito ha ripreso a crescere in modo inesorabil­e, fino a raggiunger­e il picco del 132,8% del 2016. Più crescita, certamente, che resta la via maestra, da sostenere attraverso politiche economiche in grado di coniugare il necessario rientro da un passivo così ingente con azioni mirate ad accrescere produttivi­tà e domanda interna. Accanto a più inflazione (che agisce sul valore nominale del debito), privatizza­zioni e taglio selettivo della spesa corrente primaria. È la scommessa del prossimo Documento di economia e finanza. Per convincere Bruxelles e i mercati occorre tracciare con il Def il percorso, una sorta di cronoprogr­amma valido anche per il governo che verrà dopo le elezioni. Per questo, la prossima legge di Bilancio, che parte con l’handicap di 19,6 miliardi di clausole di salvaguard­ia da disinnesca­re, appare come decisiva e va preparata con grande attenzione. Se si voterà nel 2018, sarà il governo Gentiloni ad assumersi l’onere di scelte non più differibil­i, con la crescita e la riduzione del debito in cima alle priorità. Viceversa, lo scenario si complicher­ebbe non poco, non solo e non tanto per gli “esami” e le “pagelle” di Bruxelles ma per le prospettiv­e di crescita del Paese. Ed è una scommessa non da poco.

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