Le banche americane vicine ad azzerare le perdite dal 2007
pLe azioni di Goldman Sachs sono cresciute del 37% dall’8 novembre, il giorno in cui gli americani hanno scelto Donald Trump come 45esimo presidente. Con Obama un’azione della banca d’affari valeva 180 dollari. Adesso, a distanza di tre mesi, il valore è balzato a 250. Con questo scatto la quotazione si è portata sui massimi degli ultimi 10 anni, riprendendo i valori del 2007: prima che la crisi dei derivati subprime mandasse gambe all’aria il settore del credito negli Usa e, a ruota, in Europa dove anche le grandi banche avevano i bilanci intossicati dai titoli spazzatura legati ai mutui made-in-Usa.
La storia di Goldman Sachs non è un caso isolato. Con Trump l’indice delle banche statunitensi è avanzato del 30% e adesso è vicinissimo ad azzerare le perdite accusate tra il 2007 e il 2011, quando il passivo in Borsa superò l’80%. A conti fatti, in media le banche americane valgono oggi il 12% in meno rispetto ai valori di Borsa che esibivano a inizio 2007, quando la bolla dei derivati non era ancora scoppiata e quando Lehman Brothers (che avrebbe chiuso i battenti nel 2008) pareva scoppiasse di salute.
Trump sta dando alle banche Usa nuova linfa, promettendo di abolire il sistema di regole fortemente voluto dal predecessore Obama (la legge Dodd-Frank). Oltre alla deregolamentazione, il settore del credito sta beneficiando del percorso di normalizzazione dei tassi avviato dalla Federal Reserve (negli ultimi 14 mesi ha ritoccato due volte all’insù il costo del denaro e a maggio potrebbe farlo ancora). Tassi più alti si traducono in margini più alti nell’attività tradizionale: pre- stando a tassi più alti denaro comprato a sconto nel mercato interbancario o dalla banca centrale. E Trump anche in questo caso ci sta mettendo lo zampino. Promettendo forti stimoli fiscali (con conseguente deficit stimato in crescita al 6% annuo), il presidente sta alimentando al rialzo le aspettative future d’inflazione, spianando difatti la strada alla Federal Reserve per procedere più serena verso nuovi rialzi dei tassi.
Doveroso il confronto con l’Europa e l’Italia. Mentre le ban- che Usa si avviano a riprendere le quotazioni di inizio 2007, cancellando difatti la brusca correzione della bolla subprime, come vanno le cose dall’altra parte dell’Oceano? Il confronto è nefasto. Rispetto ai valori di 10 anni fa le banche dell’Eurozona sono ancora sotto del 75% e quelle italiane ancora peggio (-84%).
Le banche Usa hanno in sostanza creato la crisi (impacchettando a raffica in titoli derivati mutui a tasso variabile concessi anche a ceti meno-abbienti) e contagiato le banche europee. Ma ora, mentre le prime si sono tirate fuori da quelle sabbie mobili, gli istituti europei continuano ad annaspare. Va detto, a rigor di Borsa, che i dati non sono irrazionali. Basti pensare che da fine 2006 ad oggi, gli utili delle banche Usa sono scesi del 4%, quelli delle banche dell’area euro del 65%: i prezzi delle azioni hanno seguito il differenziale degli utili. La domanda da fare è come mai si è venuta a creare questa profonda distanza di redditività? Secondo gli esperti al gap hanno contribuito quattro fattori: 1) la maggiore prontezza e uniformità degli Usa nel reagire con, già nel 2008, un’iniezione di soldi pubblici per 500 miliardi (piano Tarp); 2) la maggiore velocità degli Usa nell’agevolare fusioni sinergiche nel settore; 3) la maggiore espansione economica americana dove il Pil dal 2007 è cresciuto di 14 punti reali contro i soli 4 punti dell’Eurozona; 4) negli Usa i tassi sono da tempo più alti e non sono mai finiti sottozero. Basti pensare che oggi lo spread tra i Treasury e il Bund è superiore ai 200 punti. Un bel vantaggio per il Roe delle banche di Wall Street.
LE CAUSE Il comparto beneficia dell’attesa per la riforma della Dodd-Frank e del percorso di normalizzazione dei tassi avviato dalla Fed