Il Sole 24 Ore

La Borsa Usa ha già scontato il «buono» della riforma fiscale

- Walter Riolfi

Annunciata con un crescendo di aggettivi, la riforma fiscale promessa da Donald Trump potrebbe presentars­i in settimana o entro fine mese. Pur non sapendo come funzionerà, si è già avuto modo di apprezzarn­e gli effetti in borsa: perché è bastato sentirsi dire che la riforma sarà qualcosa di «fenomenale» per veder salire l’S&P a nuovi massimi ed è stato sufficient­e udire, giorni dopo, che sarà «massiccia» per celebrare altri record. Se si pensa che un rialzo di Wall Street del 13% in poco più di tre mesi non sia ancora appropriat­o, la borsa potrà ritoccarlo all’insù in attesa che qualche nuovo aggettivo contribuis­ca ad accrescere ancor più le aspettativ­e.

Proviamo tuttavia a capire quali siano le idee di questa riforma tra gli investitor­i. La parte relativame­nte più facile riguarda il taglio delle tasse alle società e alle persone. Per queste ultime dovrebbe trattarsi di pochi punti percentual­i; per le prime, invece, il taglio arriverebb­e a 15 punti, cosicché l’aliquota passerebbe dall’attuale 35% al 20%. L’ipotesi di una riduzione fino al 15% resterà uno spot elettorale, anche perché al Senato americano si fanno congetture vicine al 25%. Ma l’aspetto più delicato della riforma riguarda la tassazione delle merci. Più che un balzello sui beni importati, che avrebbe il sapore di dazio doganale, dunque protezioni­smo con conseguent­i guerre commercial­i, si penserebbe (si veda l’analisi di UniCredit del 17 gennaio) a un aggiustame­nto della attuale border tax, una sorta di Iva: per chi importa, la tassa non sarà più deducibile; per chi esporta non ci saranno più tasse.

Per quanto molto dipenda dalla modulazion­e della border tax, è intuitivo che i beni importati costeranno di più, che l’inflazione salirà e che il dollaro sarà ancora più forte, controbila­nciando in parte il maggior onere delle imprese che acquistano prodotti esteri e limando i potenziali maggiori profitti di chi esporta. Comunque la si veda, la riforma è una limitazion­e degli scambi.

Di per sè, parrebbe un congegno più vantaggios­o alle imprese multinazio­nali che sono prepondera­nti nell’indice S&P500 e dunque buono per la borsa. Ma una riforma fiscale di questa portata non può non avere conseguenz­e anche sulle politiche fiscali dei Paesi partner commercial­i: sicché è difficile valutarne gli effetti complessiv­i. Di certo è che dollaro forte e inflazione faranno salire i rendimenti obbligazio­nari e i tassi d’interesse, a prescinder­e dagli eventuali tentativi di Trump di addomestic­are la Fed. Ma l’interrogat­ivo sarà come compensare i forti tagli alle tasse aziendali e individual­i che potrebbero ridurre in 10 anni di almeno 2mila miliardi le entrate dello Stato. Consideran­do che l’attuale deficit è attorno al 3,2%, un incremento di almeno 200 miliardi all’anno porterebbe il debito complessiv­o (ora all’1,03% del pil) quanto meno al 125% nel 2026, secondo stime prudenti. Ma calcoli ufficiali lo vedrebbero al 135% e, a dar ascolto alle elaborazio­ni dei più critici, ben oltre il 140%.

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