La Borsa Usa ha già scontato il «buono» della riforma fiscale
Annunciata con un crescendo di aggettivi, la riforma fiscale promessa da Donald Trump potrebbe presentarsi in settimana o entro fine mese. Pur non sapendo come funzionerà, si è già avuto modo di apprezzarne gli effetti in borsa: perché è bastato sentirsi dire che la riforma sarà qualcosa di «fenomenale» per veder salire l’S&P a nuovi massimi ed è stato sufficiente udire, giorni dopo, che sarà «massiccia» per celebrare altri record. Se si pensa che un rialzo di Wall Street del 13% in poco più di tre mesi non sia ancora appropriato, la borsa potrà ritoccarlo all’insù in attesa che qualche nuovo aggettivo contribuisca ad accrescere ancor più le aspettative.
Proviamo tuttavia a capire quali siano le idee di questa riforma tra gli investitori. La parte relativamente più facile riguarda il taglio delle tasse alle società e alle persone. Per queste ultime dovrebbe trattarsi di pochi punti percentuali; per le prime, invece, il taglio arriverebbe a 15 punti, cosicché l’aliquota passerebbe dall’attuale 35% al 20%. L’ipotesi di una riduzione fino al 15% resterà uno spot elettorale, anche perché al Senato americano si fanno congetture vicine al 25%. Ma l’aspetto più delicato della riforma riguarda la tassazione delle merci. Più che un balzello sui beni importati, che avrebbe il sapore di dazio doganale, dunque protezionismo con conseguenti guerre commerciali, si penserebbe (si veda l’analisi di UniCredit del 17 gennaio) a un aggiustamento della attuale border tax, una sorta di Iva: per chi importa, la tassa non sarà più deducibile; per chi esporta non ci saranno più tasse.
Per quanto molto dipenda dalla modulazione della border tax, è intuitivo che i beni importati costeranno di più, che l’inflazione salirà e che il dollaro sarà ancora più forte, controbilanciando in parte il maggior onere delle imprese che acquistano prodotti esteri e limando i potenziali maggiori profitti di chi esporta. Comunque la si veda, la riforma è una limitazione degli scambi.
Di per sè, parrebbe un congegno più vantaggioso alle imprese multinazionali che sono preponderanti nell’indice S&P500 e dunque buono per la borsa. Ma una riforma fiscale di questa portata non può non avere conseguenze anche sulle politiche fiscali dei Paesi partner commerciali: sicché è difficile valutarne gli effetti complessivi. Di certo è che dollaro forte e inflazione faranno salire i rendimenti obbligazionari e i tassi d’interesse, a prescindere dagli eventuali tentativi di Trump di addomesticare la Fed. Ma l’interrogativo sarà come compensare i forti tagli alle tasse aziendali e individuali che potrebbero ridurre in 10 anni di almeno 2mila miliardi le entrate dello Stato. Considerando che l’attuale deficit è attorno al 3,2%, un incremento di almeno 200 miliardi all’anno porterebbe il debito complessivo (ora all’1,03% del pil) quanto meno al 125% nel 2026, secondo stime prudenti. Ma calcoli ufficiali lo vedrebbero al 135% e, a dar ascolto alle elaborazioni dei più critici, ben oltre il 140%.