Il Sole 24 Ore

Sul congresso Renzi non tratta Bersaniani verso la scissione

Da Emiliano, Rossi e Speranza ultimatum sui tempi di assise e voto La replica: irricevibi­le Il segretario è convinto che sia un bluff: «Vado a vedere le carte»

- Emilia Patta

Matteo Renzi “vede”, come si dice nel linguaggio dei giocatori di poker. Già, perché il segretario del Pd è convinto che quello della minoranza che minaccia la scissione sia un bluff. E allora va a vedere le carte. Oggi, nell’assemblea del partito convocata per dare seguito al voto della direzione di lunedì scorso aprendo la fase congressua­le, non farà passi indietro usando anche toni molto duri nei confronti della minoranza: il congresso si farà subito, con le primarie in primavera e dunque prima delle amministra­tive di giugno. Quanto al governo guidato da Paolo Gentiloni, Renzi ripeterà le stesse identiche parole pronunciat­e nel discorso in direzione: pieno sostegno, e sulla data delle prossime elezioni non decide il segretario del Pd ma i livelli istituzion­ali, a cominciare dal presidente della Repubblica. Stop.

L’ ipotesi, pure circolata nelle ultime ore, di andare incontro aller ichieste della minoranza spostando il congresso a ottobre - soluzione caldeggiat­a fino all’ultimo da Dario Franceschi­ni - è via via sfumata anche di fronte alle parole pronunciat­e nella kermesse di ieri al teatro Vittoria di Roma dai tre “sfidanti” di Renzi, i governator­i della Puglia e della Toscana Michele Emiliano ed Enrico Rossi e il giovane bersaniano Roberto Speranza: congresso alla data di scadenza naturale ossia a dicembre e sostegno al governo Gentiloni fino alla fine della legislatur­a le condizioni; per il resto una critica talmente radicale alla leadership di Renzi da chiederne di fatto il passo indietro senza neanche fare il congresso. Come fece Walter Veltroni nel 2008 e come - ha scandito Emiliano tra gli applausi della platea del Vittoria – fece Pier Luigi Bersani nel 2013 «consentend­o a Renzi di fare il segretario del Pd e poi il premier». E quando Speranza annuncia di aver sentito Renzi al telefono, dalla platea sale un brusio di disapprova­zione. Poi, a microfoni spenti, il giovane bersaniano precisa che non sta certo a lui chiedere a Renzi di non ricandidar­si alla leadership-premiershi­p del Pd. «Io credo che il Pd con Renzi alla guida sia più debole, ma questa è una mia valutazion­e politica – spiega -. Io lavoro per un cambio di linea del partito e questo può avvenire solo con tempi più lunghi. Non serve a niente un congresso-lampo che assomiglie­rebbe troppo a un plebiscito». Insomma, la minoranza ha bisogno di tempo per riorganizz­arsi attorno a una piattaform­a alternativ­a. E anche, aggiungono i renziani, per ten- tare nel frattempo il logorament­o di un Renzi privato di una rilegittim­azione immediata. Ma è proprio sulla richiesta, di fatto, della “testa” di Renzi che si ricompatta tutta la maggioranz­a del Pd: «Ricatto irricevibi­le». Ed è il presidente del partito Matteo Orfini a riportare infine la questione su binari più politici: «Ragioniamo suco s’ èilPd: unp arti todi iscritti ed elettori, come recitalo statuto. Un partito in cui le scelte decisive si fanno attraverso la partecipaz­ione di milioni di perso- ne. Se davvero Renzi è il vero problema di questo partito, non possiamo deciderlo io, Bersani e D’Alema. Spetta alla nostra comunità valutarlo. È per questo che serve un congresso. È proprio la rilevanza politica delle critiche della minoranza a renderlo indispensa­bile». Insomma Renzi, con il supporto della sua maggioranz­a, va a quella conta che dieci anni fa Veltroni evitò proprio per non spaccare il partito. E a sentire Speranza, che in serata commenta «se le cose stanno così le nostre scelte saranno conseguent­i», il conto della storia infine è arrivato. Si va verso la scis- sione di due fondatori del Pd come D’Alema e Bersani. Con il nome del possibile nuovo partito che campeggia già dietro il palco del Vittoria: “Democratic­i socialisti”.

E qui si inserisce il “vedo” di Renzi: il segretario è convinto che Emiiano e Rossi non seguiranno Bersani e D’Alema, che alla fine resteranno. Il bluff, insomma. E se il “tridente” dovesse dividersi per Renzi sarebbe un capolavoro politico: avrebbe comunque un competitor a sinistra e lascerebbe il cerino in mano della responsabi­lità della scissione a coloro che hanno brindato all’indomani della sconfitta referendar­ia (la politica è fatta anche di rapporti personali, e certe immagini non si dimentican­o, da una parte e dell’altra).

Come che sia, lo scenario scissione non potrà che avere riflessi sul governo, con la formazione di gruppi parlamenta­ri autonomi (quaranta deputati e una ventina di senatori). Lo dicono chiarament­e anche alcuni ministri come Andrea Orlando e Maurizio Martina. Con la conseguenz­a paradossal­e che lo scenario delle elezioni anticipate a giugno, che proprio gli scissionis­ti vorrebbero evitare, ridiventer­ebbe reale. Quanto a Gentiloni, oggi sarà presente all’assemblea del suo partito ma non prenderà la parola. Eppure uno dei suoi collaborat­ori a Palazzo Chigi si lascia scappare una battuta: «La scissione nel nome di Gentiloni? Fa ridere».

POSSIBILE VOTO A GIUGNO Gentiloni sarà all’assemblea. L’ipotesi scissione riapre la finestra elettorale di giugno. Martina e Orlando: «Il governo non reggerebbe»

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