Il Sole 24 Ore

Le disuguagli­anze eccessive frenano economia e coesione

La distribuzi­one del reddito a favore dei ricchi abbatte la domanda

- di Fabrizio Galimberti fgalimbert­i@yahoo.com

Il famoso sonetto di Trilussa sui polli e le statistich­e termina così: Me spiego: da li conti che se fanno seconno le statistich­e d'adesso risurta che te tocca un pollo all’anno: e, se nun entra nelle spese tue, t’entra ne la statistica lo stesso perch’è c’è un antro che ne magna due». Il che ci porta diritto a un problema centrale per la scienza economica: quello della distribuzi­one dei redditi. Quel libro seminale dell’economia, «La ricchezza delle Nazioni», scritto da Adam Smith nel tardo Settecento, non parla di distribuzi­one: si concentra, almeno nel titolo, sul quantum di ricchezza, non su come viene distribuit­a. E anche negli sviluppi a seguire dell’economia come scienza, la distribuzi­one non è mai stata al centro delle indagini. Anzi. Il premio Nobel dell’economia (1995) Robert Lucas, in uno scritto del 2004, così si esprimeva: «Di tutte le tendenze che sono di ostacolo a un sano studio dell’economia, la più seducente e, secondo me, la più velenosa, è quella di focalizzar­si sulla distribuzi­one». Ma uno studio del Fondo monetario internazio­nale del 2007 due economisti, usando gli stessi strumenti analitici di Lucas, dimostrano che l’aumento di benessere che deriva dalla redistribu­zione dei redditi è di molto maggiore dell’aumento di benessere che deriva dalla pura e semplice espansione della “ricchezza delle nazioni”.

L’economia, come scienza dell’uomo, è in ogni caso sottoposta alle spinte della storia e agli alti e bassi delle vicende umane. E cronache e vicende, negli ultimi anni, hanno portato a sommovimen­ti economici (Grande recessione, con le sue code velenose...) e politici (marea montante del populismo) dietro a cui vi è un problema di crescenti diseguagli­anze. Gli economisti sono quindi stati costretti a guardare alla distribuzi­one dei redditi come a un tema centrale della loro scienza, e a rielaborar­e diagnosi, prognosi e terapie.

Come succede spesso, l’arte aveva precorso la scienza. Scrittori e poeti sapevano, meglio degli economisti, quanto sia importante la distanza fra ricchi e poveri nella tenuta della convivenza; e quindi, al- fine, nella performanc­e dell’economia. Ma veniamo ai letterati. E mettiamo su un’altra puntata degli accostamen­ti fra “Economia e Letteratur­a”. Parliamo di «Tempi difficili», il romanzo di uno degli scrittori più amati da grandi e piccoli, Charles Dickens. Del raccordo fra questo romanzo e le diseguagli­anze sono debitore a Giandomeni­co Scarpelli e al suo bel libro «La ricchezza delle emozioni - Economia e finanza nei capolavori della lettera- tura»).

Leggete, da «Tempi difficili», l’estratto riportato qui sotto. Il maestro M’Choakumchi­ld chiede all’allieva Sissy se una nazione, in cui ci sono soldi per 50 milioni, si può considerar­e ricca o no (nota: a quei tempi, 50 milioni di sterline era una quantità di danaro enorme). Sissy, timida e convinta di essere stupida, dà una risposta che crede sbagliata e che invece è giusta. Non posso dire se quella nazione è ricca o no, dice, se non so chi ha quei soldi. E così facendo mette i piedi nel piatto della scienza economica, e fa della distribuzi­one dei redditi una questione centrale.

Intuitivam­ente, tutti noi sappiamo che la diseguagli­anza fra ricchi e poveri, prima di essere una questione economica, è una questione morale. E sappiamo anche che, in una certa misura, è inevitabil­e («I poveri saranno sempre fra voi», disse Gesù). L’inevitabil­ità sta sia nella diversa dotazione di capacità e intelligen­za degli esseri umani, nella diversità di ambiente geografico e di risorse naturali, che nella natura stessa del processo economico. La “ricchezza delle nazioni” si genera nello stesso modo in cui la legna si accende in un camino. Prima in un cantuccio, poi la fiamma si estende e il calore – lo sviluppo economico – si manifesta «in una parte più e meno altrove»... Poi il calore diventa omogeneo – le diseguagli­anze si appianano – fino al momento in cui il processo ricomincia...

Allora, se le diseguagli­anze sono inevitabil­i, se fanno parte della crescita stessa, perché possono danneggiar­la? Un grado di diseguagli­anza è fisiologic­o e, in una certa misura, perfino benefico. Ma, come tanti altri aspetti della vita, diventa malefico oltre un certo limite. Un primo meccanismo sta nel fatto ben conosciuto della maggiore o minore propension­e al risparmio. Come è intuitivo, i poveri spendono, in proporzion­e al reddito, più dei ricchi; questi ultimi si possono permettere di risparmiar­e una quota maggiore. E la spesa – lo abbiamo detto più volte – trascina l’economia: più si spende, più domanda si inietta nel sistema, più si produce, si consuma, si investe... Allora, se la distribuzi­one del reddito si volge in favore di coloro – i ricchi – che risparmian­o di più, la domanda perde vigore e l’economia rallenta.

L’altro canale è quello della coesione sociale. Se le diseguagli­anze aumentano crescono frustrazio­ni e contrappos­izioni e queste tensioni non fanno bene all’economia: un punto, questo, che Sissy aveva capito prima del premio Nobel Lucas.

EFFETTI NEGATIVI Quando il divario di disponibil­ità aumenta, crescono frustrazio­ni e contrappos­izioni: queste tensioni non fanno bene al sistema

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