Serve un «codice» per valorizzare l’impresa culturale
L’Europa, continente povero di materie prime, può contare sul maggiore patrimonio storico, artistico e culturale del mondo. Molte delle nuove professioni del futuro si sviluppano nell’ambito della filiera delle imprese creative e culturali, nelle organizzazioni non profit e nelle fondazioni. Il settore produce, inoltre, anche numerosi effetti non-economici che devono essere tenuti in debito conto nel momento in cui si vuole delineare una politica pubblica in tale ambito. Per esempio, la cultura ha impatto sulla coesione sociale, sullo sviluppo delle diversità, sulla creazione di condizioni favorevoli alla creatività e all’innovazione.
Volendomi concentrare solo sull’ambito culturale, l’offerta italiana è caratterizzata da forme variegate d’impresa. Come sottolinea il recente XII Rapporto Annuale di Federculture 2016, alcune di esse sono soggetti di natura giuridica privata promossi dagli enti locali che mantengono le funzioni d’indirizzo e controllo; a queste si aggiungono enti non profit di natura privata (associazioni etc.) e le circa 2.000 cooperative che operano nell’ambito del patrimonio culturale e dello spettacolo. Inoltre, nel solco tracciato dalla Convenzione di Faro (firmata dal nostro Paese nel 2013) si affermano processi partecipativi dei cittadini in campo sociale e culturale e la nascita di imprese di comunità. Con “imprese culturali” si definiscono dunque quelle strutture organizzative, pubbliche o private, che gestiscono beni e attività culturali destinati alla fruizione pubblica (input e output culturale).
Il riconoscimento della qualifica di “impresa culturale”, non dovrebbe estendersi a quelle imprese, qualificate “creative”, che partendo da input culturali, producono beni e servizi destinati al mercato (ad esempio, design, architettura, moda, videogiochi, ecc). La discriminante è da rintracciare nella presenza o meno di una finalità pubblica, cioè della destinazione delle attività di gestione e valorizzazione di beni e attività culturali alla partecipazione e fruizione pubblica. Per contro, ricondurre la politica culturale alla sola politica della conservazione di determinati beni culturali (normalmente prodotti nel passato e detenuti dal demanio o vincolati, come tali più facilmente riconoscibili e classificabili) è assolutamente riduttivo.
A fianco, quindi, della politica di conservazione dei beni cultu- rali pubblici o privati (si pensi alle dimore storiche), sino a oggi prevalente, bisogna considerare nuove politiche culturali che assieme concorrono a definire quella che dovrebbe essere la Politics culturale, a sostegno del sistema economico nel suo complesso, lo sviluppo territoriale e il rilancio dell’occupazione.
Nella nuova programmazione europea, le politiche culturali trovano spazio nei programmi a gestione diretta della Commissione, che ha attribuito al programma Europa Creativa 1,462 miliardi di euro. Dal 2016 Europa Creativa include anche uno strumento finanziario di garanzia del valore di 121 milioni di euro per favorire l’accesso ai finanziamenti nei settori culturali e creativi. In tema di patrimonio culturale e sua conservazione, l’obiettivo promosso da Orizzonte 2020 è la ricerca sulle strategie, le metodologie e gli strumenti necessari per garantire un patrimonio culturale dinamico e sostenibile per l’Europa, in risposta al cambiamento climatico.
In Italia, il PON Cultura e Sviluppo, dotato per il settennio 2014-2020 di 490,9 milioni di euro (di cui 368,2 a carico dei fondi europei), ha l’obiettivo di valorizzazione degli asset culturali (attrattori) di rilevanza strategica nazionale nelle aree ricadenti nelle cinque regioni del Sud in ritardo di sviluppo (Basilicata, Calabria, Campania, Puglia, Sicilia), sostenendo anche azioni di promozione e sviluppo dei servizi e delle attività correlate alla fruizione del patrimonio. Se dunque la piattaforma di sostegno economico, ancorché non sempre sinergica, è significativa e variegata, sotto il profilo giuridico, la gestione dei luoghi culturali è caratterizzata da alcune peculiarità che non vengono adeguatamente tenute in considerazione dall’attuale Legislatore.
Occorre, pertanto, far emergere la consapevolezza del peso strategico del settore culturale e, in particolare, della rilevanza delle imprese protagoniste nella gestione dell’offerta del Paese, articolando una disciplina normativa specifica per l’impresa culturale che ponga in essere gli strumenti fiscali, amministrativi e gli strumenti finanziari a sostegno del settore. La creazione di un Codice che disciplini organicamente l’impresa culturale avrebbe la finalità, non già di promuovere l’uniformità nel settore culturale, ma di rendere più agevole, ai soggetti che vi operano, il perseguimento dei loro obiettivi istituzionali e della sostenibilità economico-finanziaria delle loro iniziative.