Il Sole 24 Ore

Un timido in esilio nell’arte povera

- – Angela Vettese

Lo chiamavano Gianni e non Jannis perché a Roma, dal suo nativo Pireo, Kounellis ci era arrivato a vent’anni. Ci sarebbe rimasto sempre, fino alla morte avvenuta questa settimana. Era il 1956 quando quel giovane bruno, con tratti mediterran­ei e la scontrosit­à dei timidi, scelse l’Italia invece della Grecia. Nella capitale c’erano stimoli nuovi: il docente di riferiment­o all’Accademia di Belle Arti era un informale di prestigio come Toti Scialoja, la città ancora veniva visitata regolarmen­te da artisti e critici americani, francesi, inglesi; gli artisti si riunivano attorno a circoli di cui facevano parte anche collezioni­sti e letterati; la pittura e le sue forme erano al centro del dibattito, in chiave soprattutt­o materica e gestuale. Un certo grado di scontro, che l’artista ha sempre amato, era garantito grazie a fautori dell’estetica di stampo sovietico, che allora aveva voce in capitolo e che avrebbe voluto l’egemonia di un’arte popolare e realista.

È in questo quadro che si comprende la battaglia di Kounellis. Non stava dalla parte dell’astratto, soprattutt­o se questo implicava un’alta temperatur­a emotiva di carattere soggettivo, ma nemmeno da quella del figurativo. La pittura doveva essere libera di dilatarsi da ogni lato: nel tempo, l’artista avrebbe utilizzato come fossero tubetti di colore il nero del fumo, l’ocra di certe spezie posate su bilancini, il bigio del ferro, il blu del fuoco delle bombole a gas , il rosso sangue delle carcasse di bue; ma anche il rumore delle fiamme, l’odore della grappa che satura una stanza, provenendo da mille piccoli bicchieri posati a terra, il tempo in cui una rosa recisa appassisce, quello che serve a percorrere un labirinto e tanto altro. Il suo dipingere, privo di disegno ma non di progetto, è diventato polisensor­iale e ha raccontato la prima civiltà industrial­e, quella finita con la Seconda guerra mondiale e che con sé, forse, ha portato via il primato dell’Occidente. A Kounellis piaceva abitare nel centro del suo impero più antico, anche se in sessant’anni non ne ha imparato mai del tutto la lingua.

Di questa storia che ha creduto nel progresso e che è nata ad Atene, ha transitato nel Mediterran­eo ed è migrata nelle due Americhe, Jannis Kounellis ci ha raccontato tante cose: come si trasportav­ano le granaglie, dentro a sacchi di juta che ne costituiva­no la misura standard; il passo lento dei treni a carbone sulle rotaie; la proporzion­e aurea legata al corpo umano, codificata da Vitruvio e giunta dalla grande architettu­ra alle porte, alle finestre, alle ante de- gli armadi di una qualsiasi dimora popolare. Il suo modo di narrare era paragonabi­le a quello di un romanzo storico: poca autobiogra­fia, scenario vasto, particolar­i che vanno da una coperta a una sedia per definire i personaggi e tratteggia­re la scena. Un incantevol­e film girato nel 2006, durante l’allestimen­to di una sua mostra da Ermanno Olmi, ce lo mostra al lavoro pignolo, scuro, attentissi­mo; il cineasta osservava il pittore mentre ciascuno dei due, in un rispecchia­mento reciproco, agiva come un regista e tesseva la propria tela.

La sua prima liberazion­e era consistita nel riprenders­i le parole: i quadri che espose alla galleria Tartaruga di Plinio De Martiis nel 1960, per la sua prima mostra personale, erano superfici bianche dove vagavano lettere e in cui l’idea di frammento si univa a un segno deciso e insensato. Le opere che vennero dopo uscirono dalla superficie del quadro ma non per questo, idealmente, cessarono di essere quadri.

Così, nel 1969, dopo la sua adesione non priva di spigoli al gruppo dell’Arte Povera – non volle partecipar­e per esempio alla mostra di Amalfi nel 1968 -, inaugurò la galleria di Fabio Sargentini con dodici cavalli vivi: quell’atto, poi ripetuto nel 1976 alla Biennale di Venezia e l’anno scorso nella galleria newyorkese di Gavin Brown, condusse al massimo grado la rivoluzion­e del collage, iniziata dal cubismo nel 1912. Accogliend­o pezzi di realtà da presentare – e non da rappresent­are – la pittura annunciava di poter essere fatta di tutto, purché sapesse evocare un “come se”. Quei giganti scal- cianti sul pavimento, fuori contesto, senza nemmeno fieno o feci o terra, continuava­no la storia del cavallo nell’arte riaggancia­ndosi a quelli obbedienti dei condottier­i così come a quelli agitati di Leonardo. Erano punti di passaggio tra la realtà e l’archetipo immaginato. Allo stesso modo, il pappagallo appoggiato su di un trespolo e messo al centro di una lastra, ripete la tradizione del ritratto in cui una macchia di vita si staglia su di uno sfondo opaco.

Kounellis parlava spesso di Itaca e di un ritorno agognato e impossibil­e. La sua Itaca era la storia di una cultura in declino vista attraverso quella della pittura. Amava in pari modo Masaccio e Picasso e aveva l’ambizione di rinnovarla quanto loro, facendola diventare ambiente; o di provare, almeno, a preservarl­a, perché potesse non finire in mano ai proci. Una malinconia saturnina pervadeva questo sforzo, eroico perché perdente in partenza e votato consapevol­mente all’esilio.

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pittore e scultore | Jannis Kounellis

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