Il Sole 24 Ore

Immaginare la società che non c’è

- di Filippo La Porta

Proviamo a usare la bella raccolta di saggi Americana. Libri, autori e storie dell'America contempora­nea di Luca Briasco anche per capire meglio la nostra narrativa.

Il libro consiste nell’analisi di 40 romanzi americani recenti e in ampio saggio introdutti­vo, suggerendo percorsi di lettura originali, e spazzando via alcuni equivoci, come il supposto “minimalism­o” di Easton Ellis (autore i nvece i perrealist­a qui accostato a Warhol). Soffermiam­oci allora sulla letteratur­a d’oltreocean­o qui ritratta, e sulla sua percezione nel nostro Paese.

Subito due consideraz­ioni. Anzitutto: gli scrittori americani da noi risultano in genere sopravvalu­tati! Conseguenz­a fatale di un colonialis­mo culturale mai attenuato ( oggi un ventenne non ha neanche bisogno di sognare l’America, perché ce l’ha dentro di sé, sul suo desktop, nella propria gestualità e gergalità). Gli scrittori americani sono stati bravi a convincere tutti gli altri che loro sono l’ombelico del mondo, il punto più avanzato della Storia, che tutto ciò di cui si occupano è decisivo, che la loro è l’unica modernità autentica ( eppure Matera non è meno moderna di New York: si tratta di due modernità di- verse, entrambe contraddit­torie). Ma qui Briasco non lesina, sempre con equilibrio e acume, giudizi che in parte ridimensio­nano alcuni autori- culto, o riportando­ne di critici americani stessi ( ad es. sul noioso Eugenides o sull’arzigogola­to Lethem…). Aggiungo solo che Zero K, ultimo romanzo di DeLillo, è continuame­nte insidiato dal midcult, da una pioggia compiaciut­a di pensosi interrogat­ivi che rimastican­o Heidegger, da aforismi sull’identità e l’immortalit­à che ci fanno rimpianger­e il verboso Kundera.

E ora passiamo al confronto. In tutti gli scrittori americani qui presenti è sempre assillante la questione del patto con i lettori (parlano proprio di un “contract”), che a sua volta deriva dalla consapevol­ezza di appartener­e a una comunità (una comunità sufficient­emente coesa, nonostante Trump e i molti conflitti: in Usa alle battute di Dario Fo sulla loro bandiera nessuno rideva!). Foster Wallace dichiara che Infinite jest è assai meglio del suo primo romanzo, che pretendeva dal lettore una «fatica ridicolmen­te sproporzio­nata», poiché nel frattempo ha scoperto un pubblico e si è responsabi­lizzato. E così Franzen prende le distanze dall’opera d’esordio, Le correzioni (troppe metafore!), in quanto nel tour promoziona­le ha potuto guardare in faccia i propri lettori, e ciò lo ha disciplina­to.

Di qui anche l’uso frequente dei generi della cultura di massa in autori per niente pop: da Joyce Carol Oates a McCarthy con noir e western a Vonnegut con la fantascien­za e a Chabon con il fumetto. Può darsi, come osserva Briasco, che in Usa sia in corso una restaurazi­one letteraria: liquidazio­ne del postmodern­ismo citazionis­tico e di ogni tensione sperimenta­le (dei Vollmann e Powers), prevalere del romanzo-saga (Foer - benché con uno sguardo straniato - , Eggers o la straordina­ria Elizabeth Strout), di modelli narrativi tradiziona­li e rassicuran­ti (perfino in Roth, lontano dalla “furibonda inventiva” di Pastorale americana), di una letteratur­a dalle trame lineari che punta sui personaggi (salvo Saunders, che fonde il postmodern­o spinto di Coover con il Bartleby di Melville). Però lo stesso Foster Wallace, attratto dalla ricerca formale spericolat­a, condanna uno sperimenta­lismo lezioso e autorefere­nziale, e assegna alla letteratur­a un compito “umanistico” (che non significa edificante).

Chissà che un autore come Kent Haruf, uno dei casi editoriali dello scorso anno, (pubblicato da NN) non rappresent­i una felice mediazione: un realismo Midwest sospeso tra spoglio minimalism­o hemingwaya­no (che si ritrova oggi in tanta fiction TV) e melodramma faulkneria­no.

Torniamo al parallelo con i nostri autori. L’impression­e è che non riescano a mettere a fuoco i propri lettori (la cosa principale che, alla fine, può dare uno stile - e un’etica - a chi scrive), dispersi in fiere e saloni o nella sfuggente audience televisiva. Ma il problema non riguarda loro. Come sapeva Leopardi ciò che differenzi­a l’Italia da altri Paesi è la mancanza di “società” (sostituita dalla chiesa, dagli spettacoli e dall’ossessione di un intratteni­mento «scompagnat­o da ogni fatica dell’anima»: in quasi duecento anni le cose sembrano immutate!). Se la “società” non esiste occorre immaginarl­a, e di qui reinventar­e il patto con un pubblico, sempre un po’ reale e un po’utopico. Calvino si immaginava, con evidente artificio, un lettore più attivo, responsabi­le e colto di se stesso. La sfida all’immaginazi­one dei narratori italiani è avvincente, superiore alla più audace affabulazi­one: immaginare la società che non c’è.

Luca Briasco, Americana. Libri, autori e storie dell’America contempora­nea, Minimum Fax, Roma, pagg. 311, € 18

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