Immaginare la società che non c’è
Proviamo a usare la bella raccolta di saggi Americana. Libri, autori e storie dell'America contemporanea di Luca Briasco anche per capire meglio la nostra narrativa.
Il libro consiste nell’analisi di 40 romanzi americani recenti e in ampio saggio introduttivo, suggerendo percorsi di lettura originali, e spazzando via alcuni equivoci, come il supposto “minimalismo” di Easton Ellis (autore i nvece i perrealista qui accostato a Warhol). Soffermiamoci allora sulla letteratura d’oltreoceano qui ritratta, e sulla sua percezione nel nostro Paese.
Subito due considerazioni. Anzitutto: gli scrittori americani da noi risultano in genere sopravvalutati! Conseguenza fatale di un colonialismo culturale mai attenuato ( oggi un ventenne non ha neanche bisogno di sognare l’America, perché ce l’ha dentro di sé, sul suo desktop, nella propria gestualità e gergalità). Gli scrittori americani sono stati bravi a convincere tutti gli altri che loro sono l’ombelico del mondo, il punto più avanzato della Storia, che tutto ciò di cui si occupano è decisivo, che la loro è l’unica modernità autentica ( eppure Matera non è meno moderna di New York: si tratta di due modernità di- verse, entrambe contraddittorie). Ma qui Briasco non lesina, sempre con equilibrio e acume, giudizi che in parte ridimensionano alcuni autori- culto, o riportandone di critici americani stessi ( ad es. sul noioso Eugenides o sull’arzigogolato Lethem…). Aggiungo solo che Zero K, ultimo romanzo di DeLillo, è continuamente insidiato dal midcult, da una pioggia compiaciuta di pensosi interrogativi che rimasticano Heidegger, da aforismi sull’identità e l’immortalità che ci fanno rimpiangere il verboso Kundera.
E ora passiamo al confronto. In tutti gli scrittori americani qui presenti è sempre assillante la questione del patto con i lettori (parlano proprio di un “contract”), che a sua volta deriva dalla consapevolezza di appartenere a una comunità (una comunità sufficientemente coesa, nonostante Trump e i molti conflitti: in Usa alle battute di Dario Fo sulla loro bandiera nessuno rideva!). Foster Wallace dichiara che Infinite jest è assai meglio del suo primo romanzo, che pretendeva dal lettore una «fatica ridicolmente sproporzionata», poiché nel frattempo ha scoperto un pubblico e si è responsabilizzato. E così Franzen prende le distanze dall’opera d’esordio, Le correzioni (troppe metafore!), in quanto nel tour promozionale ha potuto guardare in faccia i propri lettori, e ciò lo ha disciplinato.
Di qui anche l’uso frequente dei generi della cultura di massa in autori per niente pop: da Joyce Carol Oates a McCarthy con noir e western a Vonnegut con la fantascienza e a Chabon con il fumetto. Può darsi, come osserva Briasco, che in Usa sia in corso una restaurazione letteraria: liquidazione del postmodernismo citazionistico e di ogni tensione sperimentale (dei Vollmann e Powers), prevalere del romanzo-saga (Foer - benché con uno sguardo straniato - , Eggers o la straordinaria Elizabeth Strout), di modelli narrativi tradizionali e rassicuranti (perfino in Roth, lontano dalla “furibonda inventiva” di Pastorale americana), di una letteratura dalle trame lineari che punta sui personaggi (salvo Saunders, che fonde il postmoderno spinto di Coover con il Bartleby di Melville). Però lo stesso Foster Wallace, attratto dalla ricerca formale spericolata, condanna uno sperimentalismo lezioso e autoreferenziale, e assegna alla letteratura un compito “umanistico” (che non significa edificante).
Chissà che un autore come Kent Haruf, uno dei casi editoriali dello scorso anno, (pubblicato da NN) non rappresenti una felice mediazione: un realismo Midwest sospeso tra spoglio minimalismo hemingwayano (che si ritrova oggi in tanta fiction TV) e melodramma faulkneriano.
Torniamo al parallelo con i nostri autori. L’impressione è che non riescano a mettere a fuoco i propri lettori (la cosa principale che, alla fine, può dare uno stile - e un’etica - a chi scrive), dispersi in fiere e saloni o nella sfuggente audience televisiva. Ma il problema non riguarda loro. Come sapeva Leopardi ciò che differenzia l’Italia da altri Paesi è la mancanza di “società” (sostituita dalla chiesa, dagli spettacoli e dall’ossessione di un intrattenimento «scompagnato da ogni fatica dell’anima»: in quasi duecento anni le cose sembrano immutate!). Se la “società” non esiste occorre immaginarla, e di qui reinventare il patto con un pubblico, sempre un po’ reale e un po’utopico. Calvino si immaginava, con evidente artificio, un lettore più attivo, responsabile e colto di se stesso. La sfida all’immaginazione dei narratori italiani è avvincente, superiore alla più audace affabulazione: immaginare la società che non c’è.
Luca Briasco, Americana. Libri, autori e storie dell’America contemporanea, Minimum Fax, Roma, pagg. 311, € 18