Vo ce dello sradicamento
Pochi scrittori conoscono il concetto di sradicamento meglio di Max Aub: padre tedesco e madre francese, combattente repubblicano nella Guerra civile spagnola, in fuga prima in Francia e poi, definitivamente, in Messico. Nutrimenti pubblica una raccolta di racconti che parlano questa lingua dell’esilio: Gennaio senza nome. «Chi sono?», si domanda Aub in un brano riportato dal curatore Emilio Maggi. «Cosa sono? Niente. Di chi la colpa? Come incolparmi? Eppure, latente, quella fitta, quel verdetto: colpevole». L’amarezza è una costante, in questo libro: è il sigillo di un esilio assoluto, non soltanto fisico ma in primo luogo esistenziale.
In Gennaio senza nome ascoltiamo dialoghi appassionati sulla Spagna, sulla rivoluzione, sulla Repubblica; dibattiti intrisi di teologia e riflessioni morali. Vediamo le masse di persone in fuga verso la Francia, all’inizio della guerra. Seguiamo i ricordi confusi del Le Portiller di Una storia qualunque, passato «da una prigione all’altra». E leggiamo delle disavventure del Malaga, lo sprovveduto al centro del bellissimo Lustrascarpe del Padreterno. Il Malaga viene travolto suo malgrado della guerra, fatto prigioniero in Francia e poi spedito nel campo algerino di Djelfa in Nordafrica (in cui lo stesso Aub venne rinchiuso). Lo sguardo ingenuo del lustrascarpe rende l’assurdità del conflitto e la durezza della detenzione ancora più intollerabili. «È oltre», osserva un suo compagno. «Forse quello che noi consideriamo un ritardo — secondo un parere medico, è un ritardato mentale — è l’esatto contrario. Forse il il Malaga è un anticipatore dell’altro mondo, quando saremo tutti uguali…»
Questo mondo non sarebbe giunto. Anzi: il presente da cui guarda Aub è tinto della no- stalgia per la mancata rivoluzione comunista — o della sua perversione, come attesta il racconto Librada. Tre compagni conversano davanti alla tomba di una donna suicida per la diffamazione del marito Ernesto, da parte del Partito. Il comunista radicale giustifica il fatto spiegando che un errore della Causa è sempre giustificato perché rivolto al benessere delle generazioni future. Di fronte a questo realismo crudele, l’inquietudine degli altri due personaggi fa da controcanto, ma non risolve nulla. In effetti Aub non fa sconti, non tace i rancori e gli odi mai sopiti anche fra rivoluzionari: il suo mondo non conosce pacificazione. Così ragiona il narratore del Cimitero di Djelfa, in una lettera: «L’unica unione che c’è stata tra noi spagnoli — e ora tra arabi e cabili — è quella lì, l’unione dell’odio. Mai l’amicizia o il progresso. Il futuro della nostra guerra, e di questa, è sempre stato — è — subordinato alla sicurezza di ammazzarci tra di noi dopo la vittoria». E così Remigio Morales, repubblicano incapace di rassegnarsi, tira i bilanci nel racconto Il colpo di grazia: «Ci hanno insegnato a essere corretti declamando che la caparbietà negli ideali è una virtù essenziale; che la libertà vale più di ogni altra cosa, che bisogna sacrificare tutto all’onestà, e adesso, per aver rispettato quei comandamenti come meglio ho potuto, mi hanno cancellato dalla faccia della terra».
Difficile trovare righe più lucide sul peso della sconfitta. Eppure, allo stesso tempo, la prosa di Aub non appare affatto rassegnata: in ogni sua riga è inquieta, mobile, vivissima, mai banale. E forse non è un caso che il primo racconto di Gennaio senza nome porti un’epigrafe di Cervantes: «Nell’esser vinti hanno la vittoria». La memoria dei ¡No pasarán! scanditi alla fine del testo, pure se annegati dalla Storia, è ancora più forte dell’oblio.
Max Aub, Gennaio senza nome, a cura di E. Maggi, Nutrimenti, Roma, pagg. 192, € 17