Il Rinascimento messo in scena
Con enfasi teatrale si ricostruisce un’epoca infarcendola di motti memorabili ed evitando le tinte intermedie
La Renaissance di Jules Michelet è tutt’ora uno dei pochi libri dei quali si può dire che abbiano inventato il proprio oggetto storiografico. Sino alla sua pubblicazione, nel 1855, il Rinascimento era stato sinonimo di una corrente letteraria e di un evento decisivo nella storia della cultura europea: la ricomparsa delle Belle Lettere, vale a dire dei modelli poetici, narrativi e drammatici dell’antichità greco-romana, con i loro generi, le loro presunte regole (implicite ed esplicite), i loro topoi formali, le loro moralità sentenziose, i loro riferimenti storici e mitologici. In pieno clima romantico, ostile alla grande stagione del classicismo (XV-XVIII secolo), Michelet giungeva così a riaffermare la centralità della Rinascenza, ma come atteggiamento globale di insofferenza verso la tradizione e di sfida al principio di autorità; senza smettere di essere l’età di Ariosto e Raffaello, essa diventava (soprattutto) l’età di Colombo, Copernico e Lutero. Per questa strada il Rinascimento finiva anzi per presentarsi come l’anticamera di quella Rivoluzione francese cui – tra il 1843 e il 1853 – lo stesso Michelet aveva dedicato una storia in sette tomi. Tra Quattro e Cinquecento, in Italia, si era insomma inaugurata la modernità: una idea che, liberata delle sue implicazioni politicamente più radicali, avrebbe sorretto, pochi anni dopo La civiltà del Rinascimento in Italia di Jacob Burckhardt (1860).
La Renaissance fa parte della gigantesca Histoire de France di Michelet, ma parla principalmente di Italia: come campo di battaglia, nella lotta per la supremazia sul continente tra Francesco I e Carlo V, e come incubatrice principale dell’«uomo nuovo». Tanto più curioso può sembrare dunque che il volume di Michelet ci abbia messo più di un secolo e mezzo a trovare la sua prima traduzione grazie alle cure di Leandro Perini (in un volume, purtroppo, funestato dai refusi).
Se La Renaissance merita di essere letta ancora oggi è però per tutto quello che non entra in un manuale di storiografia e che non può essere semplicemente riassunto o parafrasato. L’entusiasmo che ha suscitato ancora nel pieno XX secolo, presso figure assai diverse tra loro quali Lucien Fevre, Georges Bataille, Delio Cantimori, Roland Barthes e Hayden White, nasce sicuramente dalla ricchezza di spunti che le sue pagine sono ancora in grado di offrire ai lettori, ben al di là delle formule passe-partout.
Uno degli elementi che fanno di Michelet uno studioso (diciamo pure: uno scrittore) diverso da tutti gli altri è l’estremismo con cui ha creduto nella continuità tra storia naturale e storia umana. Entrambe, infatti, obbediscono secondo lui alla medesima legge della Metamorfosi, mentre le creazioni fisiche e culturali non smettono di dialogare secondo sotterranee leggi di analogia. La cattedrale gotica è un «debole insetto»; la città che le sorge attorno «un formicaio»; i filosofi scolastici «degli uccelli notturni» che non riescono a guardare la Natura nello splendore del pieno giorno; e così via (lo stesso Michelet compose opere su L’uccello, L’insetto, Il mare e La montagna).
La fissazione di Michelet per cicli di procreazione e morte (e in generale per tutti i processi organici) nasce qui. Nel costante passaggio delle forme da uno stato all'altro (solido, liquido, gassoso) nulla è peggio della «reificazione» del vivente. Il termine, destinato a una grande fortuna nella filosofia europea con Marx e Lukàcs, in Michelet non figura ancora, mentre ricorre, ripetutamente, l’immagine dell’uomo fatto cosa (cioè reso schiavo), o, al polo opposto, viene elogiata l a moderna scienza anatomica, che mediante le dissezioni dei cadaveri, uccide «una cosa per salvare degli uomini».
Nelle sue pagine Michelet parla tanto di cadaveri perché concepisce l’opera dello storico come evocazione dei morti. La necromanzia è però un’attività difficile, che richiede complessi rituali. Nel caso dello storico tali rituali non sono fatti di formule magiche ed esorcismi ma di tecniche eminentemente letterarie. Poiché il passato si conosce attraverso una particolare forma di empatia, lo storico deve farsi medium per i suoi lettori. E poiché la presenza e l’evidenza sono le virtù principali di questo processo di ricostituzione del passato, più di ogni altra forma letteraria è il teatro ad assisterlo nel compito immane di risvegliare Lazzaro dal suo sonno.
Naturalmente, secondo le convenzioni del tempo, la teatralità di Michelet è una teatralità della parola. Nella Renaissance la storia si riassume così in una sequenza di motti, grazie ai
| «Savonarola al cospetto di Carlo VIII» di Massimiliano Lodi, 1866-67, Gallerie d'Arte Moderna e Contemporanea, Ferrara
dall'illimitata fiducia attribuita alla fisiognomica (un’altra forma di evidenza), o dalla tendenza a moltiplicare i numeri oltre il verosimile, come quando afferma che la cacciata dalla Spagna sarebbe costata agli ebrei un milione di morti o che nella Roma di Innocenzo VIII ci sarebbero stati 200 assassinii ogni quindici giorni. Nelle pagine di Michelet, protagonista di un secolo di passioni melodrammatiche e quasi coetaneo di Victor Hugo, non c’è infatti spazio per le tinte intermedie: tutto deve essere o bianco o nero.
Convocato dall’officiante alla grande cerimonia della Storia, il lettore di Michelet viene trascinato a poco a poco in uno stato di esaltazione intellettuale. Comprendere significa infatti per Michelet anzitutto rivivere, prendere parte, immergersi in un grande flusso collettivo destinato a inverarsi nel trionfo della Rivoluzione sui suoi nemici. Ed è per questo che, presa nel suo complesso, l’Histoire de France può essere letta come la vicenda di un Popolo che alla fine riesce a conoscere se stesso nell'azione rivoluzionaria esattamente come, nel Tempo ritrovato, Marcel si ricongiunge all’origine e da lì può cominciare a scrivere.
Dove invece Michelet appare oggettivamente più debole è nel racconto dei singoli avvenimenti. Il drammaturgo della storia non è un romanziere e, quando deve narrare i fatti, si limita a collazionare senza passione i resoconti degli storici precedenti, così come li si erano ascoltati già mille volte (Carlo VIII che entra in Firenze, «armi alla coscia»). Questo, tuttavia, è il limite non solo di Michelet ma di tutta una generazione ancora abituata a ricostruire il passato dal proprio studiolo, combinando e ricombinando in tutti i modi possibili le testimonianze dei contemporanei a seconda dell'attendibilità di volta in volta riconosciuta a questo o a quello.
Era il modello di storiografia che, attraverso i suoi scavi negli archivi italiani per la sua Storia dei papi, Leopold Ranke aveva cominciato a mettere in discussione sin dagli anni Trenta. Proprio mentre Michelet licenziava i suoi primi capolavori, una nuova metodologia, costruita sullo scavo dei fondi a lungo trascurati, cominciava infatti a prendere piede dalla Germania, rivoluzionando per sempre i protocolli della ricerca e trasformando lo storico, da dilettante sedentario in esploratore professionista. In parte, tale metodologia è ancora la nostra: al punto che, non c'è dubbio, a valutarla con gli standard contemporanei, la Renaissance non reggerebbe oggi alle critiche della più indulgente delle commissioni di laurea. Questo, però, non è ovviamente un buon motivo per privarsi del piacere, davvero incomparabile, di leggere la prosa trascinante di Michelet e di confrontarsi con la sua prodigiosa intelligenza dei fenomeni storici e delle invisibili connessioni che stringono assieme i diversi piani dell’esperienza umana (e non).
Jules Michelet, Il Rinascimento, a cura di Leandro Perini, Firenze University Press, pagg. 280, € 17,90