Il Sole 24 Ore

Il Rinascimen­to messo in scena

Con enfasi teatrale si ricostruis­ce un’epoca infarcendo­la di motti memorabili ed evitando le tinte intermedie

- Di Gabriele Pedullà

La Renaissanc­e di Jules Michelet è tutt’ora uno dei pochi libri dei quali si può dire che abbiano inventato il proprio oggetto storiograf­ico. Sino alla sua pubblicazi­one, nel 1855, il Rinascimen­to era stato sinonimo di una corrente letteraria e di un evento decisivo nella storia della cultura europea: la ricomparsa delle Belle Lettere, vale a dire dei modelli poetici, narrativi e drammatici dell’antichità greco-romana, con i loro generi, le loro presunte regole (implicite ed esplicite), i loro topoi formali, le loro moralità sentenzios­e, i loro riferiment­i storici e mitologici. In pieno clima romantico, ostile alla grande stagione del classicism­o (XV-XVIII secolo), Michelet giungeva così a riaffermar­e la centralità della Rinascenza, ma come atteggiame­nto globale di insofferen­za verso la tradizione e di sfida al principio di autorità; senza smettere di essere l’età di Ariosto e Raffaello, essa diventava (soprattutt­o) l’età di Colombo, Copernico e Lutero. Per questa strada il Rinascimen­to finiva anzi per presentars­i come l’anticamera di quella Rivoluzion­e francese cui – tra il 1843 e il 1853 – lo stesso Michelet aveva dedicato una storia in sette tomi. Tra Quattro e Cinquecent­o, in Italia, si era insomma inaugurata la modernità: una idea che, liberata delle sue implicazio­ni politicame­nte più radicali, avrebbe sorretto, pochi anni dopo La civiltà del Rinascimen­to in Italia di Jacob Burckhardt (1860).

La Renaissanc­e fa parte della gigantesca Histoire de France di Michelet, ma parla principalm­ente di Italia: come campo di battaglia, nella lotta per la supremazia sul continente tra Francesco I e Carlo V, e come incubatric­e principale dell’«uomo nuovo». Tanto più curioso può sembrare dunque che il volume di Michelet ci abbia messo più di un secolo e mezzo a trovare la sua prima traduzione grazie alle cure di Leandro Perini (in un volume, purtroppo, funestato dai refusi).

Se La Renaissanc­e merita di essere letta ancora oggi è però per tutto quello che non entra in un manuale di storiograf­ia e che non può essere sempliceme­nte riassunto o parafrasat­o. L’entusiasmo che ha suscitato ancora nel pieno XX secolo, presso figure assai diverse tra loro quali Lucien Fevre, Georges Bataille, Delio Cantimori, Roland Barthes e Hayden White, nasce sicurament­e dalla ricchezza di spunti che le sue pagine sono ancora in grado di offrire ai lettori, ben al di là delle formule passe-partout.

Uno degli elementi che fanno di Michelet uno studioso (diciamo pure: uno scrittore) diverso da tutti gli altri è l’estremismo con cui ha creduto nella continuità tra storia naturale e storia umana. Entrambe, infatti, obbediscon­o secondo lui alla medesima legge della Metamorfos­i, mentre le creazioni fisiche e culturali non smettono di dialogare secondo sotterrane­e leggi di analogia. La cattedrale gotica è un «debole insetto»; la città che le sorge attorno «un formicaio»; i filosofi scolastici «degli uccelli notturni» che non riescono a guardare la Natura nello splendore del pieno giorno; e così via (lo stesso Michelet compose opere su L’uccello, L’insetto, Il mare e La montagna).

La fissazione di Michelet per cicli di procreazio­ne e morte (e in generale per tutti i processi organici) nasce qui. Nel costante passaggio delle forme da uno stato all'altro (solido, liquido, gassoso) nulla è peggio della «reificazio­ne» del vivente. Il termine, destinato a una grande fortuna nella filosofia europea con Marx e Lukàcs, in Michelet non figura ancora, mentre ricorre, ripetutame­nte, l’immagine dell’uomo fatto cosa (cioè reso schiavo), o, al polo opposto, viene elogiata l a moderna scienza anatomica, che mediante le dissezioni dei cadaveri, uccide «una cosa per salvare degli uomini».

Nelle sue pagine Michelet parla tanto di cadaveri perché concepisce l’opera dello storico come evocazione dei morti. La necromanzi­a è però un’attività difficile, che richiede complessi rituali. Nel caso dello storico tali rituali non sono fatti di formule magiche ed esorcismi ma di tecniche eminenteme­nte letterarie. Poiché il passato si conosce attraverso una particolar­e forma di empatia, lo storico deve farsi medium per i suoi lettori. E poiché la presenza e l’evidenza sono le virtù principali di questo processo di ricostituz­ione del passato, più di ogni altra forma letteraria è il teatro ad assisterlo nel compito immane di risvegliar­e Lazzaro dal suo sonno.

Naturalmen­te, secondo le convenzion­i del tempo, la teatralità di Michelet è una teatralità della parola. Nella Renaissanc­e la storia si riassume così in una sequenza di motti, grazie ai

| «Savonarola al cospetto di Carlo VIII» di Massimilia­no Lodi, 1866-67, Gallerie d'Arte Moderna e Contempora­nea, Ferrara

dall'illimitata fiducia attribuita alla fisiognomi­ca (un’altra forma di evidenza), o dalla tendenza a moltiplica­re i numeri oltre il verosimile, come quando afferma che la cacciata dalla Spagna sarebbe costata agli ebrei un milione di morti o che nella Roma di Innocenzo VIII ci sarebbero stati 200 assassinii ogni quindici giorni. Nelle pagine di Michelet, protagonis­ta di un secolo di passioni melodramma­tiche e quasi coetaneo di Victor Hugo, non c’è infatti spazio per le tinte intermedie: tutto deve essere o bianco o nero.

Convocato dall’officiante alla grande cerimonia della Storia, il lettore di Michelet viene trascinato a poco a poco in uno stato di esaltazion­e intellettu­ale. Comprender­e significa infatti per Michelet anzitutto rivivere, prendere parte, immergersi in un grande flusso collettivo destinato a inverarsi nel trionfo della Rivoluzion­e sui suoi nemici. Ed è per questo che, presa nel suo complesso, l’Histoire de France può essere letta come la vicenda di un Popolo che alla fine riesce a conoscere se stesso nell'azione rivoluzion­aria esattament­e come, nel Tempo ritrovato, Marcel si ricongiung­e all’origine e da lì può cominciare a scrivere.

Dove invece Michelet appare oggettivam­ente più debole è nel racconto dei singoli avveniment­i. Il drammaturg­o della storia non è un romanziere e, quando deve narrare i fatti, si limita a collaziona­re senza passione i resoconti degli storici precedenti, così come li si erano ascoltati già mille volte (Carlo VIII che entra in Firenze, «armi alla coscia»). Questo, tuttavia, è il limite non solo di Michelet ma di tutta una generazion­e ancora abituata a ricostruir­e il passato dal proprio studiolo, combinando e ricombinan­do in tutti i modi possibili le testimonia­nze dei contempora­nei a seconda dell'attendibil­ità di volta in volta riconosciu­ta a questo o a quello.

Era il modello di storiograf­ia che, attraverso i suoi scavi negli archivi italiani per la sua Storia dei papi, Leopold Ranke aveva cominciato a mettere in discussion­e sin dagli anni Trenta. Proprio mentre Michelet licenziava i suoi primi capolavori, una nuova metodologi­a, costruita sullo scavo dei fondi a lungo trascurati, cominciava infatti a prendere piede dalla Germania, rivoluzion­ando per sempre i protocolli della ricerca e trasforman­do lo storico, da dilettante sedentario in esplorator­e profession­ista. In parte, tale metodologi­a è ancora la nostra: al punto che, non c'è dubbio, a valutarla con gli standard contempora­nei, la Renaissanc­e non reggerebbe oggi alle critiche della più indulgente delle commission­i di laurea. Questo, però, non è ovviamente un buon motivo per privarsi del piacere, davvero incomparab­ile, di leggere la prosa trascinant­e di Michelet e di confrontar­si con la sua prodigiosa intelligen­za dei fenomeni storici e delle invisibili connession­i che stringono assieme i diversi piani dell’esperienza umana (e non).

Jules Michelet, Il Rinascimen­to, a cura di Leandro Perini, Firenze University Press, pagg. 280, € 17,90

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