La Biennale porta frutti
La celebre istituzione può garantire alla Serenissima sbocchi concreti per la crescita attuale e futura
Per sei mesi la città offre buone opportunità economiche per negozi, affitti, catering, allestimenti, pubblicità, libri e applicazioni informatiche
Quando a Venezia si vede qualcosa di stravagante, per esempio una sposa un po’ eccessiva, senti qualcuno che dice «xe roba dea bienàl». Per oltre un secolo, la Biennale è rimasta nell’immaginario comune un corpo estraneo e percepito come inutile. Confinata ai Giardini di Castello, nata dal sindaco Riccardo Selvatico e da un gruppo di intellettuali e imprenditori tra cui personalità come Antonio Fradeletto e Giovanni Bordiga, si è incrociata alle esigenze di rappresentanza di una città che era stata dominatrice dei mari e che l’Unità d’Italia aveva reso periferia di uno stato debole.
Fu un’invenzione geniale sulla scorta degli Expo internazionali e dei Salons parigini. La scusa furono i venticinque anni di matrimonio della coppia reale, ma in effetti la prima mostra d’arte contemporanea nazionale era stata fatta nel 1887, una sorta di prova generale che diede forza alla prima edizione, nel 1895. Volle essere fin dall’inizio una mostra biennale e internazionale, orientata a uno sguardo europeo e rivolto più all’area germanica che a quella francese. L’esordio non fu eccezionale se non per la campagna d’informazione che suscitò e per qualche scandalo. Il quadro di Giacomo Grosso, intitolato Il supremo convegno, in cui un Don Giovanni nella bara, in chiesa, ancora eccita uno stuolo di donne discinte, destò una tale attenzione da suscitare file tra i visitatori e da essere poi condotto in tournée per il mondo. Naufragò con la nave che lo portava e nessuno ne parla più. La promozione della mostra si dimostrò in seguito molto accorta e legata, per esempio, a sconti sui treni e all’idea di un primo turismo culturale.
La mostra ebbe comunque modo di crescere e di iniziare a ospitare importanti presenze straniere, incarnando una vocazione internazionale che le era propria dall’inizio. A tal punto che, già nel 1898, la duchessa Felicita Bevilacqua La Masa redasse un testa- mento in cui lasciava il suo palazzo Ca’ Pesaro alla città, purché vi fossero ospitati giovani artisti locali, sia per dar loro uno spazio, sia per offrire occasioni espositive e di vendita. Abbandonata la sua prima funzione, per uno scherzo del destino, oggi Ca’ Pesaro ospita soprattutto opere comperate alla Biennale. Il desiderio di promuovere anche talenti e mestieri locali trovò sfogo alla Biennale in altri modi, attraverso la costruzione di un Padiglione Venezia, che, peraltro, è stato così tormentato da diventare luogo per la stampa, sede di omaggi ad artisti italiani e di mostre di valore non sempre alto. La sua costruzione avvenne come contraltare locale alla nascita, dal 1907, di padiglioni nazionali − primo tra tutti quello del Belgio −, che all’inizio riguardò alcuni paesi europei, gli Stati Uniti e, solo dopo la Seconda guerra mondiale, anche stati di altri continenti. La manifestazione, interrotta tra il 1942 e il 1948, alla sua riapertura si mostrò come una gigantesca kermesse di testimonianze mondiali in cui venivano rispettati alcuni rapporti di forza tra nazioni – naturalmente i paesi più forti come la Francia, la Germania, l’Inghilterra, gli Stati Uniti non mancarono di costruire tempietti dotati di colonne e timpani –, ma che lasciava qualche spazio anche a un confronto con aree più periferiche. Oggi i Giardini sono un luogo dove si trovano a confronto alcune architetture di valore firmate, tra gli altri, da Josef Hoffmann, Alvar Aalto, Sverre Fehn. Anche se la formula dei padiglioni è stata oggetto di demolizioni critiche per il suo legame con l’idea di nazione, oggi consente di dar voce anche a gruppi etnici non rappresentati da un organismo politico o a comunità diverse, mettendo quindi proprio in crisi quell’idea di nazione da cui erano nate.
Anno dopo anno, la Biennale si è dimostrata il posto dove si sono svolti dibattiti molto attuali, quasi a sancire, e talvolta anticipare, alcune delle tendenze maggiori non soltanto dell’arte ma anche del comportamento e del pensiero. Fu qui che, nel 1964, con l’incoronazione della Pop Art, vennero laureati al contempo sia il consumismo come stile di vita, sia la supremazia culturale americana. Fu qui che, nel 1980, si presentò chiaramente al mondo la voga di un pensiero postmoderno che tagliava la testa al concetto stesso di avanguardia e con esso all’era delle ideologie. Fu qui che, nel 1993, si mise l’accento sull’aspetto relazionale, quindi di condivisione, che connota la cultura postcoloniale e globalizzata. Ed è qui che, negli anni Duemila, si sono visti esperimenti con nuove tecnologie, inclusi interventi sul corpo disposto a divenire organismo mescolato alla cibernetica. È alla Biennale che nel XXI secolo si palesano il binomio locale-globale e il tentativo continuo di «occidentalizzare l'altro», dopo la fine del predominio americano o comunque del Nordovest del mondo(...).
Nonostante alcuni anni di crisi, che sono coincisi soprattutto con l’incapacità di gestire la mostra in maniera indipendente dalla politica, il susseguirsi di riforme dello statuto e di cambiamenti hanno de facto reso possibile il suo sviluppo. Oggi la mostra è l’unica al mondo a proporsi come multidisciplinare, essendosi votata, oltre che al settore arti visive, anche all’archivio storico (1928), alla musica (1930), al teatro (1932), al cinema (1934), all’architettura (dal 1980), alla danza (dal 1998), nonché a incroci fra tutti questi settori che preludono a un rimescolamento fecondo tra discipline e modus operandi (...).
Questo sviluppo può accompagnarsi anche a una politica di acquisti di opere lungimirante, capace di far tornare Venezia uno dei luoghi in cui si producono e restano permanentemente lavori di tutti i migliori artisti del mondo. Sarebbe parte della vocazione cittadina avere un museo delle arti contemporanee in progress, continuamente arricchito attraverso le mostre, possibilmente con una certa attenzione alle professionalità artigianali e progettuali veneziane. Solo questo passaggio dalla cronaca alla storia, dalla capacità di concepire eventi a una struttura solida e articolata potrebbe garantire una svolta decisiva capace di rendere indelebile il contributo di chi presiede la Biennale. Perché la Biennale è forte ora, ma è anche un organismo esposto a rivalità di competitors che hanno più mezzi, più pubblico, meno necessità di avere come direttori di sezione dei nomi già noti, e quindi non sempre tesi a rischiare, a essere ancora i nnovativi. Per quanto bene abbia fatto alla città, senza creare un punto fermo come un archivio di documenti, ed eventualmente una biblioteca e una collezione importanti, il vantaggio dato dall’essere la più anziana biennale al mondo può ribaltarsi in un motivo per declassarla.
Detto questo, o piuttosto sognato uno sviluppo futuro che sarebbe realizzabile da domani, ci sono fatti tangibili che dicono quanto già possa fornire a Venezia l’investimento in cultura. L’aspetto più interessante per l’economia della città sta nel dilatarsi del sistema dei padiglioni e delle mostre collaterali. Dato il successo della manifestazione, soprattutto dagli anni Settanta, si è verificato un continuo aumentare della richiesta di luoghi in cui esporre (...).
Per sei mesi la città vede fiorire non solo sedi espositive improvvisate, ma anche tutto un giro di affari grandi e piccoli, che vanno dal caffè preso dai curatori al bar dell’angolo, ai golosi compensi per gli affitti, per i catering delle inaugurazioni, per la realizzazione di allestimenti, per la grafica pubblicitaria, i cataloghi, le pubblicazioni e le applicazioni informatiche che accompagnano ogni singola mostra. Sono posti di lavoro, oltre che pezzi di cultura. E ciò vale anche per l’indotto che sta intorno al festival del cinema, a cui si aggiunge un glamour più spiccato e la presenza di Venezia in televisione e altri media non specialistici per una decina di giorni l’anno. Spere quanto denaro muove un’edizione della Biennale è sostanzialmente impossibile: qualcosa viene dallo Stato, qualcosa dagli sponsor ufficiali, ma molto viene dalle gallerie, dagli artisti, dagli studi di architettura, dalle organizzazioni che si accodano all’istituzione in modo non ufficiale, dai visitatori che guardano tutto, da quelli che guardano casualmente solo un paio di sedi, dal giro di seminari, convegni, feste, conferenze, ritrovi più o meno seri, pubblicità diretta e indiretta che tutto questo mobilita. Un’edizione della Biennale Arti visive ha un numero di visitatori piuttosto basso, se comparati a quelli dei musei cittadini e di altre mostre internazionali consimili: cinquecentomila in sei mesi non sono molti, benché in crescita costante, se si pensa al milione di visitatori che Documenta richiama in cento giorni. La Biennale però è riuscita, soprattutto nei lunghi anni in cui ne è stato presidente Paolo Baratta, ma sulla base, anche, di fondamenta gettate da intellettuali e amministratori lontani nel tempo, a guadagnare e mantenere un primato culturale nel mondo e al contempo a proporsi come una risorsa che ha coinvolto larga parte delle altre istituzioni cittadine.