Orso ungherese cattivissimo
Vince il bel film di Ildikó Enyedi. Giusto il premio della giuria a «Félicité» Deluso Kaurismaki per l’argento
Alla fine ha vinto la conciliazione tra animalità e umanità, tra la carne e il pensiero, tra il corpo e l’anima, osservata attraverso una inusuale storia d’amore, tutt’altro che tenera: On body and soul dell’ungherese Ildikó Enyedi ha ottenuto l’Orso d’oro che in fondo in molti avevano pronosticato. Se è condivisibile anche il riconoscimento della giuria per Félicité stupisce non poco vedere gratificato, sia pure per la migliore interpretazione maschile (Georg Friedrich), il bolso e inutile Bright Nights di Thomas Arslan. Avrà contato, come altre volte, l’ius loci.
Tra le architetture squadrate delle periferie di Helsinki, fiocamente illuminate, e le vestigia liberty ostruite dalla pomposità socialista di Bucarest vi è un legame segreto. Le opposizioni sono evidenti: il cinema finlandese si riassume in Aki Kaurismaki; l’onda dei cineasti rumeni è effervescente e inarrestabile; il primo non ha mai ottenuto un vero premio (quello di ieri alla regia è riduttivo e lui ne è stato delusissimo), gli altri sono stati generosamente ricompensati. Eppure le strade e i palazzi di queste città favoriscono senza dubbio il racconto di una commedia umana popolata da personaggi veri nella carne e nei pensieri. C’è da meravigliarsi che The other side of hope di Kaurismaki e Ana, mon amour di Peter Calin Netzer (già Orso d’oro nel 2013 per Il caso Kerenes) siano i film migliori rimasti di questa edizione? Il regista finlandese fedele a un’economia narrativa che è stile (impossibile sottrarre un gesto, una parola), lasciata Le Havre del profetico Miracolo, torna al mondo che puzza di fumo e di vodka a buon mercato, ma odora d’empatia, per iscrivervi una commedia agra dall’umorismo eccentrico in cui s’incrociano i destini di un ristoratore senza pretese e un clandestino siriano. Niente
buonismo ma algebrico incontro di economie che rende l’amicizia tra i due solida, a dispetto di pur civili apparati repressivi. Il tocco è malinconicamente buffo, il distacco ironico ma la gravità della situazione non è mai messa in dubbio sicché il capolavoro è almeno sfiorato.
Di tutt’altra grana è la malinconia amorosa che spira nella paradigmatica vicenda di Ane e Toma che fin dalla prima scena di seduzione lascia intendere come battiti nel cuore e impulsi della mente divergano. Segreti familiari e cene che finiscono in urla e minacce favoriscono le crisi di panico di Ana e spingono Toma a assumersi responsabilità impreviste. Sottrarre la moglie al giogo dei farmaci, trascurare le ambizioni per svezzare il figlio dovrebbero suscitare riconoscenza (lo pensa il pope confessore, non necessariamente lo psicanalista) ma qui come altrove suscitano nel guarito distacco e rifiuto. Il frazionamento del dramma evitato attraverso un andirivieni spazio temporale sollecita l’adesione dello spettatore al sentire del film: agli impulsi mortiferi della coppia è praticamente impossibile sottrarsi.
Il senso del vero, espresso a dispetto di una forma naturalistica, non è quello che si potrebbe aspettare da un film cileno. Ma dietro Una mujer fantastica di Sebastián Lelio (Gloria, Berlinale 2013), Orso d’argento come migliore sceneggiatura, sta la famiglia Larraìn dalla solida immagine industriale. Lelio mette in scena il devastane dolore di Marina, trans che è ancora anagraficamente Daniel (una Daniela Vega che avrebbe meritato splendida e toccante quanto canta l’aria «Sposa son disprezzata» da Giacomelli), trattato come una criminale in seguito alla morte improvvisa del partner la cui famiglia non sa rassegnarsi alla “umiliazione” patita. La lim-
pidezza del racconto riesce a tenere a distanza l’intossicazione sessuale che l’apparato trans gender porta spesso con sé.
Oramai alle spalle l’epoca in cui la Berlinale si offriva come vetrina hollywoodiana ( per imbattersi in film a stelle e strisce è occorso attendere il documentario dell’haitiano Raul Peck (laurea alla berlinese Humboldt) I am not your negro - concorrente nell’Oscar al nostro Fuocammare che potrebbe essere punito per ybris – dove sulla falsariga degli ultimi scritti di James Baldwin, narra- tore e commediografo nero ( voce di Samuel L. Jackson), si dà vita a una seduta analitica che mette la cultura bianca al centro di riflessioni scoraggianti. Disperato e arrabbiato in ugual misura, I am not your negro mostra quanto sia ancora contrastato il percorso di una integrazione che non sembra poter mai raggiungere l’obiettivo finale. I volti indiavolati dei suprematisti bianchi davanti ai college antisegregazionisti rimarranno tra le immagini più autenticamente violente di questa edizione della Berlinale.
In attesa dell’Opa che l’industria cinese ha posto su Hollywood quando quote di produzione degli studi di Shangai saranno imposte anche ai festival più importanti (a Berlino è stata fatta resistenza a La grande Muraglia , regista Zhang Yimou e star Matt Dillon) la Berlinale ha privilegiato opere culturalmente trasversali come Mr.Long ( Sabu)divertente rovesciamento di cliché in cui un killer efferato di Taiwan scopre le dolcezze della vita familiare in piccolo paese del Giappone trasformandosi in chef raffinato o prevedibili come il thriller d’animazione Have a nice day. È stato fin troppo facile per Hong Sangsoo imporre la propria sensibilità di autore raffinato sia pure toccando in On the beach at night alone corde già accarezzate, anche grazie a Kim Min-hee, giustamente premiata come miglior interprete femminile. Per motivi diversi meritano di non essere dimenticati due film che si pongono all’opposto dell’immaginario cinematografico: l’inglese sottile, cattivo, atto unico di Sally Potter, The Party, che in virtù di una scrittura rarefatta e di una regia istintiva si pone in quest’occasione come erede ideale di Beckett-Pinter e l’italiano Chiamami col tuo nome che segna una tappa di avvicinamento di Luca Guadagnino all’asciuttezza che il suo talento merita.