Il Sole 24 Ore

La messa alla prova degli imputati fatica a decollare

- B.L.M. V.M.

Aquasi tre anni dal suo esordio la messa alla prova per indagati e imputati fatica a decollare. Soprattutt­o al Sud. E questo nonostante il fatto che il 96% dei procedimen­ti attivati si chiuda con l’estinzione del reato.

Lo strumento

Introdotta dalla legge 67 del 2014 e operativa dal 17 maggio dello stesso anno, la sospension­e del processo con messa alla prova permette all’indagato o all’imputato che ne fa richiesta (direttamen­te o attraverso il suo avvocato) di evitare il processo e cancellare il reato, se accetta di svolgere una serie di attività che comprendon­o lavori di pubblica utilità, condotte riparative per eliminare le conseguenz­e del reato e risarcimen­to del danno.

È una possibilit­à riservata a chi ha commesso reati “minori”, puniti con la sanzione pecuniaria o con la detenzione fino a quattro anni, e non è delinquent­e abituale. Lo strumento, già usato nel processo minorile, è stato esteso agli adulti per evitare che persone normalment­e estranee agli ambienti criminali vengano condannate a pene detentive di durata limitata e, allo stesso tempo, incentivar­e la riparazion­e e il risarcimen­to del danno.

L’applicazio­ne

Dal debutto fino al 31 dicembre 2016, a chiedere di essere “messi alla prova” sono stati 62.500 imputati o indagati. Ma meno della metà sono stati i programmi partiti. I dati, rilevati dal ministero della Giustizia, raccontano un trend in aumento: nel 2016 sono state presentate quasi 30mila istanze e sono stati avviati 20mila procedimen­ti. Ma si tratta comunque di numeri contenuti, tanto che il presidente della Corte di cassazione, Giovanni Canzio, ha scritto, nella sua relazione per l’apertura dell’anno giudiziari­o che «la sospension­e del procedimen­to con messa alla prova è rimasta circoscrit­ta». Canzio indica anche le ragioni: «La procedura di definizion­e del programma di trattament­o cui l’imputato deve sottoporsi risulta farraginos­a, essendo indispensa­bile e decisivo, per la predisposi­zione di detto programma, l’intervento dell’ufficio esecuzione penale esterna (Uepe, ndr), in alcuni casi carente di personale».

Gli Uepe, in effetti, hanno un ruolo chiave: se al tribunale spetta valutare se l’imputato ha i requisiti per accedere alla messa alla prova, l’ufficio deve predisporr­e il “programma di trattament­o” (e prima condurre un’indagine socio-familiare). L’Uepe deve poi seguire lo svolgiment­o del programma e redigere la relazione finale. E la mancanza di organico è in cima alla lista dei problemi indicati da questi uffici.

Come all’Uepe di Udine, Pordenone e Gorizia: «Negli ultimi tre anni - spiega il direttore, Stefania Gremese - le richieste sono quadruplic­ate, ma il personale è diminuito, anziché aumentare. La gestione delle domande di messa alla prova è un compito aggiuntivo che si è inserito in un contesto già pesante». Che la si- tuazione sia difficile si vede dai numeri: in Friuli Venezia Giulia lo scorso anno sono state presentate 1.207 istanze di messa alla prova, ma i procedimen­ti avviati sono stati solo 491.

Ma quello di Udine non è un caso isolato. E le difficoltà organizzat­ive si riverberan­o sui tempi. «Dalla richiesta all’avvio della messa alla prova passano in media sei-sette mesi», dice Severina Panarello, direttore dell’Uepe di Milano e coordinato­re degli uffici lombardi. «A Milano - prosegue - abbiamo adottato il primo protocollo nazionale che individua i criteri per garantire omogeneità di procedure e durata. L’istituto funziona, le revoche sono pochissime ma un aumento di organico ci permettere­bbe di migliorare la qualità dei programmi».

La lunghezza dei tempi - dieci mesi d’attesa media , ad esempio, a Siracusa - è una delle ragioni che spiega (oltre ai casi di diniego da parte dei giudici) il fatto che i procedimen­ti attivati siano meno del 50% delle domande presentate: non solo perché molte istanze sono ancora in lavorazion­e ma anche perché, nell’attesa, il procedimen­to si risolve per altre ragioni, come patteggiam­ento, accordi o ritiro della querela.

Più procedure al Nord

La maggior parte dei procedimen­ti di messa alla prova viene avviato nel Nord: nelle regioni settentrio­nali i programmi realizzati fino al 31 dicembre 2016 sono stati circa 17mila, più del doppio di quelli avviati al Sud.

«I numeri ridotti - spiega Francesco Greco, presidente dell’Ordine degli avvocati di Palermo - sono probabilme­nte dovuti alla tipologia di reati e alla maggiore difficoltà di soddisfare il requisito del risarcimen­to del danno. Pesa inoltre la mancanza di strutture territoria­li dove svolgere la messa alla prova». C’è anche una questione di mentalità, secondo Carlo Morace, vicepresid­ente dell’Ordine degli avvocati di Reggio Calabria: «Qui si preferisce cercare di ottenere l’assoluzion­e . In ogni caso la soglia di quattro anni di detenzione è troppo bassa: la messa alla prova andrebbe incentivat­a alzandola».

Utilizzo molto limitato, almeno rispetto alla popolazion­e, anche nel Lazio. «È un problema di strutture - dichiara Mario Scialla, avvocato del Consiglio dell’ordine di Roma - e di procedure. L’impression­e è che molti avvocati del Centrosud conoscano la situazione e temano di rimanere impastoiat­i nel percorso amministra­tivo».

IL NODO Tempi lunghi per avviare i programmi a causa della mancanza di personale degli Uepe, gli uffici incaricati di gestire l’istituto

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