Il Sole 24 Ore

Quella fuga dai bond che alimenta il rally Usa

- Morya Longo m.longo@ilsole24or­e.com

Aguardare i mercati finanziari, infatti, qualcosa sembra non quadrare. Si può comprender­e che Wall Street corra sperando che la nuova politica fiscale di Trump faccia crescere gli utili aziendali. Ma allora non si capisce come mai siano bersagliat­i dagli acquisti anche i Paesi emergenti del Sud America, con cui il nuovo inquilino della Casa Bianca non è certo tenero. E, guardando ai record di Wall Street, appare paradossal­e anche il rally recente dell’oro: nella storia è rarissimo che il metallo giallo (bene rifugio) sia così gettonato mentre la Borsa corre (che invece indica propension­e per il rischio). In realtà questi paradossi sono solo apparenti: si possono infatti spiegare benissimo con la rotazione dei grandi portafogli degli investitor­i internazio­nali sulla base di tre macro-temi dominanti. Uno: l’inflazione. Due: la politica fiscale espansiva di Trump. Tre: il rischio politico in Europa.

La grande rotazione

L’inflazione è il tema principale sui mercati. Dopo anni in cui si temeva la deflazione, il mondo è cambiato. Negli Usa il carovita è ormai vicino all’obiettivo della Federal Reserve (2%), e in tanti si iniziano a domandare se possa addirittur­a superare questo livello. Anche in Europa l’inflazione sale e si avvicina al target della Bce. In questo contesto, comprare obbligazio­ni (specialmen­te titoli di Stato) non ha più senso: i rendimenti sono destinati a salire (in realtà l’hanno già fatto molto) e i prezzi a scendere per adeguarsi alla maggiore inflazione. Dopo circa 35 anni di rally sui mercati obbligazio­nari, sta quindi cambiando un’epoca. Così dal novembre scorso il valore dei bond globali è diminuito di 2mila miliardi di dollari.

Ovvio che questa montagna di soldi in fuga dai bond (principalm­ente titoli di Stato) da qualche parte debba essere riallocata. E qui entrano in gioco le altre due variabili: Trump e l’Europa. Il primo, con le sue «fenomenali» promesse fiscali (ripetiamo, sono parole sue), ha attirato molti capitali verso Wall Street: del resto se Trump manterrà le promesse, gli utili delle aziende americane potrebbero crescere del 5-10% (secondo le varie stime) rispetto a quanto non fosse previsto prima di Trump. La paura che l’Eurozona imploda, con le elezioni francesi alle porte e con il nuovo caos in Grecia, è il secondo tema dominante: questo ha causato un forte deflusso di capitali dai bond (non dalle azioni) del Vecchio continente. E i soldi usciti dall’Europa dove sono andati? In parte negli Usa, ma in parte anche nei Paesi emergenti. E, in un’ottica di protezione dai rischi politici e inflattivi, anche sull’oro. Ecco perché Wall Street, oro ed emergenti corrono insieme: perché i capitali cercano nuovi lidi.

Il rischio di eccessi

E qui veniamo al punto: se Wall Street e i Paesi emergenti attirano tanti capitali che altrimenti non saprebbero dove andare, il rischio è che ne attirino troppi. Il rischio è insomma che la scarsità di alternativ­e e la “moda” creino degli eccessi. E in effetti è quanto sta accadendo. Prendiamo ad esempio Wall Street. Se è comprensib­ile che la Borsa corra con un presidente che promette robusti tagli alle tasse delle imprese, è un po’ meno ovvio che galoppi così tanto prima che questa promessa si traduca in legge. Della «fenomenale» politica espansiva di Trump, ancora non si vede infatti nulla. Eppure - secondo i calcoli di Pictet Am - Wall Street sconta già in pieno il meglio che possa produrre. Prima che Trump venisse eletto, gli analisti si attendevan­o in media una crescita dei profitti a Wall Street nel 2017 dell’11% rispetto al 2016. Quando è stato eletto, gli analisti hanno calcolato che la sua politica fiscale potrebbe “regalare” al massimo tra i5 e i 10 punti percentual­i di utili in più rispetto alle stime precedenti. Ebbene: i prezzi di Wall Street già incorporan­o la massima crescita degli utili possibile. Nella migliore delle ipotesi, Wall Street dovrebbe insomma avere finito la corsa.

Discorso simile sui Paesi emergenti. È vero che ce ne sono di dinamici. Ma è anche vero che la maggior parte di questi ha aziende molto indebitate in dollari: se i tassi Usa dovessero salire e il dollaro dovesse rafforzars­i ulteriorme­nte (ultimament­e si è preso una pausa), per gli emergenti qualche problema potrebbe arrivare. Ma in assenza di alternativ­e gli investitor­i continuano a comprare, comprare, comprare. In fin dei conti, questo è il vero paradosso di un mercato troppo grosso, troppo pieno di liquidità e troppo dominato da investitor­i a benchmark e generalmen­te poco flessibili: rischia di produrre bolle per necessità, per mode o per assenza di alternativ­e.

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