L’interesse del Paese e le riforme da completare
Mentre fuori impazza lo sciopero dei taxi come segno dell’Italia delle corporazioni sempre forte, le politiche volute in questi anni dalla sinistra restano in mezzo al guado. Servirebbe più mercato, ma ben regolato, e l’abbattimento degli ostacoli all’innovazione tecnologica per portare quelle politiche fuori del guado, verso un completamento capace di dare servizi più efficienti ai cittadini?
Non una parola su questo. Solo qualche balbettìo e mezze marce indietro anche da chi ha portato la bandiera delle liberalizzazioni in questo ventennio.
Se da mesi il dibattito sul lavoro - uno dei grandi temi della politica economica oggi - e sul Jobs act si è ristretto ed è diventato il dibattito su un tema marginale come quello dei voucher, questo più di altro dà il senso della crisi di un grande partito e della incapacità di mettersi insieme e poi anche di confrontarsi aspramente su cosa davvero serva al Paese: la capacità di individuare alcune grandi priorità - a partire dalla crescita - su cui andare d’accordo.
Ci si sarebbe aspettata dagli scissionisti di sinistra un’analisi profonda e capace di guardare avanti sulla implementazione del Jobs act - ad esempio sul fatto che una delle gambe fondamentali per dare completezza a quel disegno di modernizzazione del mercato del lavoro, la gamba delle politiche attive, è rimasta praticamente ferma - e invece di questo non si parla.
Una discussione seria vorrebbe invece che si desse atto dei meriti e dei limiti anche gravi - per esempio la politica dei bonus e altre tentazioni populiste - di quelle politiche di riforme del triennio renziano e che non si perdesse di vista comunque la realtà del Paese, magari partendo dai numeri e dalle storie degli uomini e delle donne, delle imprese.
Dagli scissionisti ci si sarebbe aspettato di sentire se sia utile promuovere, spingere, implementare rapidamente Industria 4.0 del ministro Calenda per rilanciare gli investimenti privati nel settore manifatturiero. Ci dicano se questa è una priorità per ridare un futuro all’Italia e se questa battaglia per la competitività del Paese bisogna combatterla tutti insieme. Se serve portare fino in fondo - e senza compromessi - la riforma della Pa e quella della giustizia civile.
Dagli scissionisti - ma anche dai renziani - ci si sarebbe aspettato di capire come cogliere i segnali, ancora deboli, di rafforzamento del Pil e con quali politiche irrobustirli. Ci si sarebbe aspettato che dessero atto al governo Renzi e ora a Gentiloni di aver rimesso in moto gli investimenti pubblici, con una quantità di risorse che non si vedeva da oltre un decennio, ma che questo non basta assolutamente, tutto è ancora maledettamente lento e burocratico, e bisogna capire tutti insieme - anche con le realtà territoriali - come accelerare. Ci si sarebbe aspettato qualche contributo per produrre più rapidamente quegli effetti reali che una nuova politica di programmazione integrata per il Sud promette. Oppure come correggerla, come darle corpo, come collegarla al reale, come superare le disfunzioni sempre dominanti della pubblica amministrazione.
Non sono solo gli scissionisti ad aver alimentato questo clima di guerriglia che non porta da nessuna parte e che - c’è da giurarci - li porterà nei prossimi mesi a volersi distinguere in Parlamento su questioni di bandiera più o meno insignificanti. Con gravissimo danno per il Paese che vivrà mesi di sospensione. E un governo che ballerà su equilibri e decisioni che al Paese non porteranno nulla.
Ci sono responsabilità anche sul fronte renziano e sono responsabilità dello stesso tipo - guardare più alle tattiche del posizionamento politico e meno agli interessi del Paese - che impattano fortemente soprattutto sul percorso del governo Gentiloni. La sinistra scissionista vorrebbe arrivare astrattamente al 2018 ma non ci dice per fare cosa. Occorre fare bene e fare subito, non aspettando i riti di conferenze programmatiche che rischiano di essere altrettanto vuote del dibattito di questi giorni. E Renzi chiede di votare al più presto rendendo di fatto impossibile al governo Gentiloni di fare quello che dovrebbe: rivendicare il lavoro riformista fatto e andare avanti fino alla fine della legislatura, con un occhio prioritario alla crescita e al lavoro; correre per mettere in funzione i pezzi di riforme che mancano (anche assumendosi - da forza politica adulta - la responsabilità di una manovra d’autunno difficile); dare un fondamentale contributo italiano - che non può prescindere dal lavoro fatto dall’ex premier - a una costruzione europea che non può aspettare, stretta fra i turni elettorali in Olanda e Francia e l’anniversario del Trattato di Roma come momento per rilanciare un disegno nuovo dell’Europa unita.
L’errore sarebbe - da una parte e dall’altra - ancora una volta personalizzare e perdere contatto con la realtà. O, peggio, inseguire i populismi sul loro terreno nell’illusione di poterli sconfiggere o demonizzare con gli slogan. Quando è chiaro che, di fronte al messaggio populista - incapace di governare i grandi problemi così come di amministrare le grandi città - la risposta può essere solo più governo e presto, senza perdere altro tempo.