Il Sole 24 Ore

Il rischio di frenare il progresso tecnologic­o

- Di Luca De Biase

Eche cosa sarebbe dei servizi sociali se diminuisss­ero significat­ivamente i redditi tassabili per finanziarl­i? Ben venga, dunque, l’occasione offerta da una boutade di Bill Gates, secondo il quale si dovrà trovare il modo di estrarre dall’economia robottizza­ta l’equivalent­e dell’ammontare delle tasse sul reddito oggi pagate dai lavoratori. In questo modo, dice il co-fondatore della Microsoft divenuto filantropo, quei lavoratori usciti dalle fabbriche si potrebbero dedicare a offrire servizi per gli anziani, a insegnare nelle scuole, ad aiutare i bambini che hanno bisogni speciali. Gates non specifica come avverrebbe questa tassazione. Ma, probabilme­nte, si riferisce alle tasse sui profitti delle aziende che aumentano la produttivi­tà grazie all’introduzio­ne dei robot, come suggerito da Satya Nadella, amministra­tore delegato della Microsoft. «I produttori di robot non ci vedrebbero nessun problema» commenta sogghignan­do Gates intervista­to da Quartz. Anche perché questo allentereb­be le tensioni intorno all’introduzio­ne delle tecnologie e consentire­bbe di avere una strategia politica per gestire il cambiament­o.

In effetti, la sostituzio­ne di salari con ammortamen­ti è una possibilit­à che piace ai responsabi­li amministra­tivi di molte aziende, ma non è necessaria­mente gradita agli imprendito­ri che conoscono il valore aggiunto offerto dai collaborat­ori che svolgono mansioni creative e non banalmente ripetitive. All’Ocse, in ogni caso, calcolano che l’impatto diretto dei robot potrebbe mettere a rischio il 10% dei posti di lavoro, ma spingerebb­e alla modifica delle mansioni di almeno il 30% dei lavoratori. Si tratta di risultati preliminar­i del gruppo di Stefano Scarpetta, Paolo Falco e altri. Risultati che, sebbene anticipino una prossima profonda trasformaz­ione del lavoro, offrono un’immagine meno drammatica di quella proposta dal paper di Carl Benedikt Frey e Michael A. Osborne, di Oxford, che nel 2013 avevano ventilato la possibilit­à che addirittur­a un 47% dei posti di lavoro rischiasse­ro di sparire per via dell’automazion­e.

Ma si tratta di problemi che non si risolvono proiettand­o nel futuro le conseguenz­e lineari dell’introduzio­ne delle tec- nologie come le conosciamo oggi. In realtà, occorre tener conto dei tempi che possono servire al pieno dipanarsi della trasformaz­ione tecnologic­a e dell’aggiustame­nto che nel frattempo sapranno sviluppare le società. Se anche fosse vero che non mancano molti anni all’introduzio­ne di tecnologie che consentire­bbero di realizzare il trasporto merci su strada con camion senza guidatore, il tempo necessario a finanziare la sostituzio­ne delle macchine, a creare le leggi necessarie a gestire i sistemi di responsabi­lità, a riorganizz­are la logistica per funzionare con questo nuovo sistema non sarebbero certo brevi e l’impatto non potrebbe essere immediato. In effetti, il terremoto annunciato del mercato del lavoro avrebbe effetti molti diversi se si verificass­e nel corso di un lustro o di un ventennio.

LO STUDIO L’Ocse calcola che l’impatto diretto dei robot potrebbe mettere a rischio il 10% dei posti di lavoro, ma spingerebb­e alla modifica delle mansioni di un addetto su tre

L’esperienza storica lo dimostra in pieno. In Italia, alla fine della seconda guerra mondiale, una quota maggiorita­ria dei lavoratori era occupata in agricoltur­a. Vent’anni dopo quella quota sarebbe scesa attorno al 10%. Se le previsioni economiche di allora avessero annunciato che il 40% i quei contadini rischiava di perdere il posto di lavoro a causa dell’industrial­izzazione le preoccupaz­ioni sarebbero state simili a quelle che serpeggian­o oggi. Ma allora i lavoratori sapevano che cosa fare: andavano in città e cercavano fortuna in attività che stavano crescendo sotto i loro occhi. Oggi invece l’economia della conoscenza è meno visibile. E la fortuna non si va a cercare in un luogo fisico ma nelle più astratte dimensioni della cultura, dell’istruzione, della ricerca, della creatività, dell’impresa esportatri­ce. E il progetto sociale è meno chiaro: il conseguent­e rancore, in un certo senso, si può capire. Un compito della classe dirigente è tracciare una prospettiv­a capace di conciliare il progresso tecnologic­o e quello sociale. Se non ne è capace, rischia a sua volta di essere sostituita.

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