«Nei cda serve un mix di competenze»
pÈ più difficile avviare una startup oppure portarla alla fase di scale-up e gestirne il percorso di crescita fino all’eventuale Ipo? La domanda è ricorrente fra chi mastica il verbo dell’innovazione e apre lo spunto a una necessaria riflessione: le modalità di lavoro che segnano i primi mesi o anni di vita della nuova impresa difficilmente risultano efficaci quando questa, superata la fase di focalizzazione sul prodotto/servizio da lanciare sul mercato, deve pensare alla propria strategia di business. E deve dotarsi di una struttura più solida e di processi più complessi, coniugando managerialità ad agilità operativa e capacità di innovazione.
Secondo Giuseppe Donvito, partner di P101, fondo di venture capital specializzato in investimenti in società tecnologiche (nato nel 2013, vanta in portafoglio oltre una ventina di startup fra cui Cortilia, Tannico e Musement), il digitale amplifica questa problematica, proprio perché lo sviluppo delle nuove imprese può risultare così rapido che è difficile gestirne l’evoluzione. Per questo diventano decisive le competenze che il consiglio di amministrazione di ogni scaleup è chiamato a mettere in campo per affrontare e vincere la sfida. Secondo Donvito, nello specifico, è necessario che il board attraversi «uno stato di metamorfosi», adattandosi alle mutate esigenze imposte dal processo di crescita. «Oltre ai fondatori della startup – questa la ricetta del partner di P101 -, il cda dovrebbe sempre includere delle figure con un set di abilità complementari, che siano quindi in grado di supportare il Ceo e gli altri componenti del management». I membri del consiglio, in altre parole, dovrebbero da una parte assicurare la definizione degli obiettivi e assumere il compito della governance aziendale (rappresentando i diversi punti di vista di tutti gli azionisti) e dall’altra costituire per la società un insieme eterogeneo di qualità impossibile da trovare in una singola figura.
Pensare che la startup possa contare da subito su questa risorsa, come spiega Donvito al Sole24ore, è poco realistico. «Nella fase iniziale la presenza nel Cda di figure di marketing e business strategy, soprattutto se di una certa seniority, può essere ridondante e costituire una zavorra di costi non sostenibile. Per questo entrano in gioco in una fase più avanzata, quando la startup è già partita e necessita di altre competenze». Competenze che l’investitore o gli investitori destinano alla società in modo direttamente proporzionale al livello di partecipazione acquisita. «Se il fondo venture – precisa in tal senso Donvito - ha una posizione di forza fra gli azionisti è logico che metterà nel board i suoi manager migliori per controllare le operations, con funzioni complementari a quelle del management già presente». Se questa è la situazione ideale e di conseguenza non così diffusa, va anche detto che, come assicura Donvito, «nessun venture capital entra nel consiglio di amministrazione di una startup con atteggiamento masochistico. Si effettuano sempre analisi preventive per capire come creare valore e scegliere di conseguenza le figure più adatte». Per avere il giusto board al momento giusto i requisiti sono noti e spaziano dall’apertura mentale alla capacità di stringere partnership e deal di alto livello, dal saper affidare alle persone più idonee i ruoli di responsabilità nel team di gestione allo svolgere attività di mentoring, direzione e controllo del team esecutivo. Le startup italiane, a detta del partner di P101, sembrano essere sulla strada giusta anche se «la perfezione è ancora lontana da raggiungere e la dialettica interna legata agli aspetti pratici del processo decisionale certo non manca». Fa ben sperare, però, il fatto che siano gli stessi founder, conclude Donvito ,«a chiedere aiuto a nuove risorse per il board, in un'ottica che non può che essere win-win».
«Oltre ai fondatori il cda dovrebbe sempre includere abilità complementari»