La manovra e il «miraggio» 2018
La “manovrina”che ieri Bruxelles ha chiesto all’Italia potrebbe diventare la prova che l’obiettivo di votare nel 2018 non è realistico. Un’anteprima di come la maggioranza non sia in grado di reggere la prossima legge di stabilità da 20 miliardi.
L’imperativo di Bruxelles di correggere i conti per 3,4 miliardi entro aprile arriva in un momento in cui la maggioranza di Governo è più frammentata e fragile di prima. Arriva, cioè, con la scissione Pd in atto, mentre ci si prepara a un congresso del partito e – soprattutto - sarà varata qualche settimana prima della campagna elettorale per le amministrative. Già questo quadro politico basterebbe per cogliere la delicatezza delle scelte che si apprestano a fare Gentiloni e Padoan di cui – del resto – hanno già avuto chiare avvisaglie. La scorsa settimana c’è stato, infatti, l’altolà di Renzi sull’aumento delle accise (che ha spiazzato il Tesoro) e c’è da aspettarsi che anche gli “scissionisti” vorranno porre le loro condizioni e spingere le loro ricette. C’è chi parla – per esempio – del ripristino della tassa sulla casa sia pure progressiva, un’ipotesi che i renziani respingono con forza. Insomma, anche se la portata finanziaria della manovrina non è significativa si apre comunque una discussione all’interno della maggioranza.
Di questo clima politico risentivano anche le dichiarazioni di ieri del ministro dell’Economia e del premier. Il primo impegnato a difendere la linea del rispetto degli impegni con l’Ue e della reputazione dell’Italia; il secondo ha usato toni più politici e quindi più prudenti chiedendo che le misure non siano depressive sulla crescita. Ecco, una grande cautela a fronte di 3,4 miliardi di correzione. E allora la domanda è cosa accadrà quando si tratterà di fare la legge di stabilità d’autunno che già oggi ha un valore di oltre 20 miliardi visto che bloccare l’aumento dell’Iva e altre accise vale 19,6 miliardi. È qui che il voto nel 2018 diventa un “miraggio”. Vanno considerate, infatti, alcune condizioni che non agevolano la stesura di una manovra di tale portata che dovrà avere o consistenti tagli di spesa o aumenti delle entrate.
La prima di queste è che la prossima “Finanziaria” guarderà in faccia le elezioni del 2018, che si faranno solo qualche settimana dopo la sua approvazione, nel febbraio. La seconda è che il partito di maggioranza relativa – il Pd – si presenterà diviso in due a quell’appuntamento e sia Renzi che il gruppo di Bersani avranno l’esigenza di definire e soprattutto differenziare il loro profilo politico in chiave elettorale. È vero che quelli che lasciano il Pd per un nuovo progetto di sinistra vogliono sostenere l’Esecutivo Gentiloni ma dietro le buone intenzioni c’è l’esigenza di visibilità che preme. E questa esigenza vuol dire innanzitutto marcare una distanza dalle ricette di Renzi mentre lui cercherà di imporle al Governo. Una battaglia identitaria che si scaricherà su alcuni provvedimenti già dalle prossime settimane e certamente su un testo politico come la manovra.
Comunque, al netto della rottura Pd, appare davvero complicato per un Governo nato dopo una sconfitta referendaria sostenere l’onda d’urto dei partiti che si preparano al voto nel 2018, reggere alle loro pressioni da campagna elettorale e contemporaneamente varare una legge di stabilità da oltre 20 miliardi. La missione sembra davvero impossibile e ormai in Parlamento molti danno per scontato il voto a settembre e una manovra fatta da chi sarà stato legittimato dal popolo. Ammesso che la legge elettorale consenta la formazione di un Governo. E al netto di “vincoli” esterni che dipenderanno dalla stagione elettorale europea, dalla Francia che è il primo test.