Manifattura italiana nella sfida tra le filiere
L’Opinion paper dei ministri dell’industria dell’Unione, pubblicato oggi dal Sole 24 Ore, ricorda che le sfide per il rilancio del mercato interno e della manifattura continentale sono oggi ancor più cruciali per il benessere dei cittadini europei.
Il panorama industriale globale va evolvendo lungo direttrici già affermate sulle quali si innestano tuttavia i recenti sviluppi tecnologici e socio-politici. Il punto di partenza è che negli ultimi vent’anni la componente nazionale del valore aggiunto contenuto nei flussi di commercio internazionale è andata diminuendo di circa il 7,5 per cento. Nei principali Paesi europei questa contrazione – che riflette la frammentazione delle filiere industriali tra nazioni diverse - è stata ancora maggiore. La manifattura si è andata sempre più organizzando in sistemi continentali (Nord America, Europa e Asia orientale) nei quali le filiere di settore si organizzano con geometrie variabili.
Le singole industrie nazionali svolgono con intensità diversa il ruolo di fornitrici di beni intermedi o produttrici di beni finali, con alcuni player che svolgono il ruolo di perno del sistema regionale: gli Usa nel Nord America; Cina (con Taiwan), Giappone e Corea in Asia; la Germania nella cosiddetta “Fabbrica Europa”. In ciascuno di questi sistemi continentali possiamo riconoscere alcune funzioni-chiave che vengono allocate con modalità differenziate: le fasi ad alta intensità di lavoro nei Paesi a più basso reddito; la produzione di componentistica specializzata in Paesi con un’affermata tradizione di esperienza e qualità manifatturiera; la ricerca e sviluppo nonché le fasi a valle del perfezionamento del prodotto finale nei Paesi-perno dei rispettivi sistemi; la rete di distribuzione e servizi connessi con la manifattura che vengono controllati nei quartier generali delle imprese.
In questo quadro, l’industria italiana ha perso quote di export rispetto al complesso dei Paesi Ocse ad alto reddito nell’ultimo decennio del secolo scorso, dal 7% circa del 1990 a poco più del 5% del 2000, ma ha tenuto bene il confronto con gli altri Paesi avanzati recuperando quote all’inizio di questo secolo. Con la crisi del 2009, invece, la quota dell’export è tornata a flettere fino a riportarsi poco sopra il 5% nel 2015. In termini di ruolo svolto dalla nostra manifattura nel sistema continentale, tra il 40 e il 60% del valore aggiunto italiano che passa attraverso altri Paesi europei viene destinato ai mercati finali Ue. Ma è ancor più interessante che le nostre esportazioni di beni intermedi verso la Germania sono invece destinate ai mercati finali più lontani, dagli Usa alla Cina. Per un’industria come la nostra, la seconda del continente e asset fondamentale della Fabbrica Europa, l’adeguamento ai nuovi paradigmi tecnologici e organizzativi è cruciale per mantenere sia il ruolo di fornitore specializzato per la piattaforma produttiva europea sia quello di esportatore di beni finali ad alto valore aggiunto ed elevata qualità.
In questo contesto di globalizzazione produttiva a forte connotazione continentale, stiamo assistendo a trasformazioni veloci e non ancora del tutto decifrabili dei paradigmi tecnologici e sociali sottostanti e delle direttrici della politica economica. La revisione dei modelli organizzativi e dei processi e prodotti industriali che va sotto il nome di Industria 4.0 di per sé comporta un riaggiustamento delle piattaforme produttive continentali, con un possibile ulteriore decentramento dei processi produttivi, reso possibile, da un lato, dal controllo digitale e dalla gestione di grandi volumi di informazioni e, dall’altro, dall’impatto che le nuove tecnologie avranno sull’identità e sulla qualità dei prodotti. Ricerche recenti mostrano la forte rilevanza ai fini del posizionamento lungo le catene del valore non solo dell’investimento in R&S o nuovo software e competenze informatiche, ma anche in capitale organizzativo e manageriale. Si tratta appunto di investire nelle competenze tecniche, ma anche organizzative e manageriali, che consentano alle aziende italiane di connettersi con altre entità produttive in Italia o all’estero, partecipando progressivamente alla transizione che sta interessando una porzione crescente dei segmenti un tempo standardizzati e meno flessibili della manifattura.
Accanto alle sfide tecnologiche, per l’industria europea e italiana si profila la sfida culturale e politica di un nuovo equilibrio da immaginare e costruire tra mercati globali e comunità sociali locali, e tra industrie nazionali e piattaforme produttive continentali. Come sottolineano i ministri dell’Industria, i venti di protezionismo e di mercantilismo che soffiano forti, prima ancora di non promettere nulla di buono per un continente integrato come l’Europa e per un’industria esportatrice come la nostra, non offrono soluzioni, ma evidenziano soltanto contraddizioni. La tensione tra l’efficienza garantita dalla globalizzazione e le iniquità nella distribuzione dei suoi vantaggi tra nazioni e gruppi sociali diversi è però forte e non va affatto sottovalutata.