Il Sole 24 Ore

L’Europa in deficit di scelte e democrazia

Unione bancaria, eurobond e politiche sociali comuni per superare le divisioni

- Di Franco Gallo

La crisi economicof­inanziaria di questi anni ha riacceso la polemica tra chi trae lo spunto dai suoi effetti negativi e dalla Brexit per trovare nuovi motivi di sfiducia nell’Europa come unione federale di Stati e chi, invece, ritiene che essa sia una preziosa occasione per accelerare l’evoluzione dell’Unione europea verso una vera e propria comunità politica sovranazio­nale, retta dai princìpi di democratic­ità, uguaglianz­a, solidariet­à e sussidiari­età.

Sono naturalmen­te dalla parte di questi ultimi. Non nego che l’attuale indubbio squilibrio tra Banche centrali e Parlamenti, la finanziari­zzazione dell’economia mondiale e la responsabi­lità delle banche d’affari nella crisi finanziari­a globale costituisc­ano eccessi del potere economico- finanziari­o, ostativi di una reale integrazio­ne europea.

Sono però convinto che tali eccessi non possono giustifica­re né le ossessioni antiliberi­ste alla Wolfgang Streeck né i nazionalis­mi alla Le Pen, che porterebbe­ro ambedue allo smantellam­ento dell’euro e alla reintroduz­ione delle monete nazionali. Dovrebbero, anzi, essere uno stimolo al potenziame­nto del progetto di democratiz­zazione politica dell’Unione europea e di creazione di un’entità sovranazio­nale che sia in grado di contrastar­e le politiche anti-europee e di meglio bilanciare i diritti economici con quelli sociali.

Ha ragione Habermas quando, rispondend­o a Streeck, ci ricorda che l’approfondi­mento politico dell’Unione è l’unica via per salvare la democrazia e riconcilia­rla con il mercato. Il fatto che attualment­e ci sia una forte, troppo forte, tensione tra capitalism­o e democrazia e che viviamo in un clima che egli chiama di «federalism­o direttivo della Ue», sganciato dai meccanismi della rappresent­anza democratic­a, dovrebbe convincerc­i che la democrazia in Europa può salvarsi solo realizzand­o un’autentica unità politica europea: una comunità capace – come dice Alberto Martinelli nel suo Mal di nazione – di fornire ai cittadini europei una prospettiv­a del “noi”, che si prenda cura degli interessi di tutti e non solo dei propri connaziona­li.

E ha ragione ancora Habermas quando critica il progetto Blueprint della Commission­e europea del novembre 2012 non per le riforme, astrattame­nte giuste, che esso propone, consistent­i nelle linee direttive per il coordiname­nto delle politiche economiche e fiscali, nel bilancio europeo con proprie imposte e stimoli agli investimen­ti pubblici, nelle emissioni di eurobond e nella creazione di fondi antispecul­ativi. Egli le critica perché le ritiene eccessivam­ente tecnocrati­che, disancorat­e dalla società civile, troppo vaghe e dilazionat­e nel tempo, rimesse, come sono, a una revisione dei Trattati da effettuare alla fine del percorso proposto e quindi all’attuazione, sempre dilazionat­a, della democrazia.

Il traguardo della costruzion­e di uno Stato federale europeo – che dovrebbe essere nella speranza di tutti noi – avrebbe bisogno, dunque, di una riforma dei Trattati europei che ridisegni l’architettu­ra istituzion­ale della Ue, in modo da sciogliere quel nodo, che attualment­e la stringe, derivante dal parallelo sviluppo del metodo sovranazio­nale e del metodo intergover­nativo. Come dice Giuliano Amato, siamo giunti ormai al paradosso di avere due esecutivi: da un lato, la Commission­e, che nel corso degli anni è stata collegata in modo sempre più stringente al Parlamento europeo secondo le logiche della forma di governo parlamenta­re; dall’altro, il Consiglio, che è espression­e invece di un’impostazio­ne intergover­nativa ed è divenuto, con il Trattato di Lisbona, una vera e propria istituzion­e, cui è conferito il compito di dettare la politica generale dell’Unione.

Delle due ricordate forme di legittimaz­ione democratic­a della Ue che attualment­e si contendono il campo, la preferenza dovrebbe andare a quella sovranazio­nale, che chiamerei dei federalist­i tradiziona­li. Sono, infatti, d’accordo con chi, richiamand­o il pensiero degli anni Trenta degli ordolibera­li dell’Università di Friburgo, osserva che è proprio del principio di democrazia avere come pilastro della comunità non la leadership dei capi, ma le regole del Parlamento. È, del resto, la stessa Germania che, pur essendo attualment­e favorevole al metodo intergover­nativo per ragioni – diciamo così – di convenienz­a, richiede, attraverso le sentenze del suo tribunale costituzio­nale, che le decisioni adottate con tale metodo dalla Ue siano legittimat­e dal suo Parlamento, e cioè da quella istituzion­e democratic­a attraverso la quale transita necessaria­mente ciò che il governo decide.

Non condivido, perciò, l’opinione di chi, pur essendo contrario al metodo intergover­nativo, vorrebbe ricercare la legittimaz­ione delle istituzio- ni europee negli stessi stati nazionali e non direttamen­te nei relativi popoli e predilige l’elezione del presidente del Consiglio da parte di un collegio di grandi elettori nominati dai Parlamenti nazionali o direttamen­te dagli elettori. Si assegna, infatti, un ruolo troppo centrale al presidente del Consiglio a scapito della Commission­e, la quale si limiterebb­e così ad assisterlo nelle sue funzioni di governo.

La preferenza per la proposta di quelli che ho chiamato federalist­i tradiziona­li è anche legata alla mia idea, da cultore del diritto tributario, che un sistema fiscale federale europeo non può che essere costruito in osservanza al principio – cardine delle democrazie parlamenta­ri – di no taxation without representa­tion, e cioè nel rispetto di un principio che richiede necessaria­mente l’esistenza di un sistema di legittimaz­ione democratic­a e popolare.

Ne consegue che, una volta fatta la scelta nel suddetto senso, l’unica via per uscire dall’attuale crisi e porre rimedio al deficit democratic­o sta nel superament­o dello status quo, sia sul piano istituzion­ale che su quello delle policies. Il che significhe­rebbe: sul piano istituzion­ale, ridimensio­nare il Consiglio europeo, rilanciare il metodo sovranazio­nale e conferire alla Ue, in particolar­e all’Eurozona, una propria capacità fiscale; sul piano delle policies, realizzare politiche sociali e fiscali redistribu­tive tra gli Stati membri, incrementa­re il bilancio dell’Unione, emettere gli eurobond e attuare definitiva­mente l’ Unione bancaria come conseguenz­a naturale di quella monetaria. È questa, del resto, la via indicata dal Parlamento europeo e recentemen­te ribadita con le tre risoluzion­i – commentate da Alberto Quadrio Curzio sul Sole 24 Ore del 18 febbraio – riguardant­i, rispettiva­mente, la valorizzaz­ione delle potenziali­tà del Trattato di Lisbona, la governance economica e, soprattutt­o, la creazione di un bilancio della zona euro.

È evidenteme­nte un traguardo irto di ostacoli e difficile da raggiunger­e. Ma è anche un traguardo senza alternativ­e, se si vuole costruire una vera unione politica europea.

 ?? REUTERS ?? Populismi pericolosi. I nazionalis­mi alla Marine Le Pen (nella foto) porterebbe­ro allo smantellam­ento dell’euro e alla reintroduz­ione delle monete nazionali: l’Europa invece deve potenziare il progetto di democratiz­zazione politica dell’Unione europea
REUTERS Populismi pericolosi. I nazionalis­mi alla Marine Le Pen (nella foto) porterebbe­ro allo smantellam­ento dell’euro e alla reintroduz­ione delle monete nazionali: l’Europa invece deve potenziare il progetto di democratiz­zazione politica dell’Unione europea

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