L’Europa in deficit di scelte e democrazia
Unione bancaria, eurobond e politiche sociali comuni per superare le divisioni
La crisi economicofinanziaria di questi anni ha riacceso la polemica tra chi trae lo spunto dai suoi effetti negativi e dalla Brexit per trovare nuovi motivi di sfiducia nell’Europa come unione federale di Stati e chi, invece, ritiene che essa sia una preziosa occasione per accelerare l’evoluzione dell’Unione europea verso una vera e propria comunità politica sovranazionale, retta dai princìpi di democraticità, uguaglianza, solidarietà e sussidiarietà.
Sono naturalmente dalla parte di questi ultimi. Non nego che l’attuale indubbio squilibrio tra Banche centrali e Parlamenti, la finanziarizzazione dell’economia mondiale e la responsabilità delle banche d’affari nella crisi finanziaria globale costituiscano eccessi del potere economico- finanziario, ostativi di una reale integrazione europea.
Sono però convinto che tali eccessi non possono giustificare né le ossessioni antiliberiste alla Wolfgang Streeck né i nazionalismi alla Le Pen, che porterebbero ambedue allo smantellamento dell’euro e alla reintroduzione delle monete nazionali. Dovrebbero, anzi, essere uno stimolo al potenziamento del progetto di democratizzazione politica dell’Unione europea e di creazione di un’entità sovranazionale che sia in grado di contrastare le politiche anti-europee e di meglio bilanciare i diritti economici con quelli sociali.
Ha ragione Habermas quando, rispondendo a Streeck, ci ricorda che l’approfondimento politico dell’Unione è l’unica via per salvare la democrazia e riconciliarla con il mercato. Il fatto che attualmente ci sia una forte, troppo forte, tensione tra capitalismo e democrazia e che viviamo in un clima che egli chiama di «federalismo direttivo della Ue», sganciato dai meccanismi della rappresentanza democratica, dovrebbe convincerci che la democrazia in Europa può salvarsi solo realizzando un’autentica unità politica europea: una comunità capace – come dice Alberto Martinelli nel suo Mal di nazione – di fornire ai cittadini europei una prospettiva del “noi”, che si prenda cura degli interessi di tutti e non solo dei propri connazionali.
E ha ragione ancora Habermas quando critica il progetto Blueprint della Commissione europea del novembre 2012 non per le riforme, astrattamente giuste, che esso propone, consistenti nelle linee direttive per il coordinamento delle politiche economiche e fiscali, nel bilancio europeo con proprie imposte e stimoli agli investimenti pubblici, nelle emissioni di eurobond e nella creazione di fondi antispeculativi. Egli le critica perché le ritiene eccessivamente tecnocratiche, disancorate dalla società civile, troppo vaghe e dilazionate nel tempo, rimesse, come sono, a una revisione dei Trattati da effettuare alla fine del percorso proposto e quindi all’attuazione, sempre dilazionata, della democrazia.
Il traguardo della costruzione di uno Stato federale europeo – che dovrebbe essere nella speranza di tutti noi – avrebbe bisogno, dunque, di una riforma dei Trattati europei che ridisegni l’architettura istituzionale della Ue, in modo da sciogliere quel nodo, che attualmente la stringe, derivante dal parallelo sviluppo del metodo sovranazionale e del metodo intergovernativo. Come dice Giuliano Amato, siamo giunti ormai al paradosso di avere due esecutivi: da un lato, la Commissione, che nel corso degli anni è stata collegata in modo sempre più stringente al Parlamento europeo secondo le logiche della forma di governo parlamentare; dall’altro, il Consiglio, che è espressione invece di un’impostazione intergovernativa ed è divenuto, con il Trattato di Lisbona, una vera e propria istituzione, cui è conferito il compito di dettare la politica generale dell’Unione.
Delle due ricordate forme di legittimazione democratica della Ue che attualmente si contendono il campo, la preferenza dovrebbe andare a quella sovranazionale, che chiamerei dei federalisti tradizionali. Sono, infatti, d’accordo con chi, richiamando il pensiero degli anni Trenta degli ordoliberali dell’Università di Friburgo, osserva che è proprio del principio di democrazia avere come pilastro della comunità non la leadership dei capi, ma le regole del Parlamento. È, del resto, la stessa Germania che, pur essendo attualmente favorevole al metodo intergovernativo per ragioni – diciamo così – di convenienza, richiede, attraverso le sentenze del suo tribunale costituzionale, che le decisioni adottate con tale metodo dalla Ue siano legittimate dal suo Parlamento, e cioè da quella istituzione democratica attraverso la quale transita necessariamente ciò che il governo decide.
Non condivido, perciò, l’opinione di chi, pur essendo contrario al metodo intergovernativo, vorrebbe ricercare la legittimazione delle istituzio- ni europee negli stessi stati nazionali e non direttamente nei relativi popoli e predilige l’elezione del presidente del Consiglio da parte di un collegio di grandi elettori nominati dai Parlamenti nazionali o direttamente dagli elettori. Si assegna, infatti, un ruolo troppo centrale al presidente del Consiglio a scapito della Commissione, la quale si limiterebbe così ad assisterlo nelle sue funzioni di governo.
La preferenza per la proposta di quelli che ho chiamato federalisti tradizionali è anche legata alla mia idea, da cultore del diritto tributario, che un sistema fiscale federale europeo non può che essere costruito in osservanza al principio – cardine delle democrazie parlamentari – di no taxation without representation, e cioè nel rispetto di un principio che richiede necessariamente l’esistenza di un sistema di legittimazione democratica e popolare.
Ne consegue che, una volta fatta la scelta nel suddetto senso, l’unica via per uscire dall’attuale crisi e porre rimedio al deficit democratico sta nel superamento dello status quo, sia sul piano istituzionale che su quello delle policies. Il che significherebbe: sul piano istituzionale, ridimensionare il Consiglio europeo, rilanciare il metodo sovranazionale e conferire alla Ue, in particolare all’Eurozona, una propria capacità fiscale; sul piano delle policies, realizzare politiche sociali e fiscali redistributive tra gli Stati membri, incrementare il bilancio dell’Unione, emettere gli eurobond e attuare definitivamente l’ Unione bancaria come conseguenza naturale di quella monetaria. È questa, del resto, la via indicata dal Parlamento europeo e recentemente ribadita con le tre risoluzioni – commentate da Alberto Quadrio Curzio sul Sole 24 Ore del 18 febbraio – riguardanti, rispettivamente, la valorizzazione delle potenzialità del Trattato di Lisbona, la governance economica e, soprattutto, la creazione di un bilancio della zona euro.
È evidentemente un traguardo irto di ostacoli e difficile da raggiungere. Ma è anche un traguardo senza alternative, se si vuole costruire una vera unione politica europea.